Al mio arrivo a Sansepolcro il cielo si carica di nuvole. Il borgo è tutto un pullulare di operatori, pass, staff, press e valigie che razzolano rumorose sui sampietrini. Con oltre 60 eventi tra teatro, musica e danza, le aspettative nei cuori di tutti si fanno alte. Le strade del borgo di Piero della Francesca si riempiranno per oltre una settimana di artisti italiani e internazionali, di pubblici e voci diverse. Popolare una città con un festival delle arti dal vivo nella seconda estate di pandemia è una presa di posizione forte: pazientare, resistere, sperare. Tutte le proposte di questa diciannovesima edizione diretta da Lucia Franchi e Luca Ricci toccano fili scoperti del nostro tempo: il conflitto tra diverse generazioni, il rapporto dell’uomo con la natura, la lotta contro le disuguaglianze di genere e contro l’immaginario coloniale proiettato sulle minoranze, il vivere al margine.
A dare la loro benedizione alla diciannovesima edizione del festival sono i padrini Spiro Scimone e Francesco Sframeli durante il primo degli incontri aperti al pubblico “Il teatro è ventre di madre”, una due-giorni di confronto e discussione sul teatro. Tra i diversi interventi emerge il confronto con Massimiliano Civica, con il quale il duo condivide alcune linee direttrici nel lavoro teatrale: la ricerca della semplicità, della pulizia del gesto e del rigore nell’ottica di un teatro artigianale e necessario. I tre trovano un punto comune anche nelle loro origini: sono nati e cresciuti in contesti di provincia e non in grandi centri. Questo provenire dal limite e non dal punto focale li ha portati ad assumere posture critiche che hanno influenzato la loro successiva produzione teatrale: per Civica, infatti, il senso di inadeguatezza e di manchevolezza suscitato dal luogo di provenienza lo ha spinto ad appassionarsi ai libri, allo studio e poi al teatro; per Sframeli lo sfondo del condominio, dei volti, delle abitudini degli abitanti dei balconi vicini e il canto della Piaf alla radio sono stati essenziali per accendere la sua curiosità nei confronti del mondo e delle altre vite possibili; per Scimone, infine, la provincia è stata necessaria a consentirgli di soffermare il suo sguardo sull’altro, permettendogli di cercare e instaurare rapporti con il quartiere, con il popolare.
Il margine, il quartiere, il condominio, il rapporto con gli altri sono tematiche che ritornano anche ne Il Cortile, storico spettacolo per la compagnia Scimone Sframeli nonché Premio Ubu 2004 come miglior testo italiano: è il primo lavoro teatrale a calcare le scene del Teatro Dante di Sansepolcro nella sera di venerdì 16 luglio. Lo spettacolo sembra rispecchiare alla perfezione il titolo dell’edizione 2021 di Kilowatt: “questa fervida pazienza” non è altro, infatti, che la rappresentazione di tre figure anziane che devono fare i conti con il tempo che passa con troppa, o troppo poca, lentezza. «Il tempo è passato? Cosa abbiamo fatto? Abbiamo svuotato il sacco».
A colpire soprattutto uno spettatore digiuno dei lavori di Scimone Sframeli è la loro attenzione, sia nel testo sia nei gesti, nei confronti dell’umano. C’è cura nel loro sguardo, cura nel loro modo di occupare lo spazio, nella scelta della parola, cura reciproca dei personaggi: l’uno è con e per l’altro. Non c’è vergogna nel mostrare un uomo anziano che ha freddo ai piedi, che ha bisogno di essere alzato per urinare; non c’è timore di mostrare un altro uomo che lo aiuta come può, fino a che ne ha la forza, come riesce. Non c’è paura di mostrare la povertà, l’umiliazione di un terzo uomo che per fame è disposto a strisciare come un verme pur di ottenere un tozzo di pane verde di muffa o nell’evocare la presenza di una moglie disposta a crepare digiuna pur di salvare il marito. Non ci sono freni perché tutto ciò che viene rappresentato è drammatico sì, ma non patetico: è la vita che viene mostrata al pubblico, con i suoi alti e bassi. Si ride spesso, si ride tanto, ma ogni risata è lo spunto per una riflessione che ogni spettatore può continuare in privato. E alla fine dello spettacolo si esce con un sorriso sghembo, un po’ divertito, un po’ commosso, più consapevole: perché nel fondo del sacco, quando non sembra esserci più nulla, è ancora possibile trovare il buio.
Che cos’è il buio? Un’assenza di luce, di immagini, di ricordi? Una parentesi che ci annebbia la mente e ci fa perdere il contatto con la realtà? Chi sono io, cosa resta di me?
Queste sono alcune tra le domande che lascia aperte l’esperienza di Eclissi del trio composto dall’attore e scrittore Alessandro Sesti, dalla musicista Debora Contini e dal compositore elettroacustico Nicola Fumo Fratteggiani: uno spettacolo in cuffia rivolto a un unico spettatore in cammino per la città, che indaga il rapporto di una persona malata di Alzheimer e la sua memoria. Con uno zainetto sulle spalle e un forte ronzio nelle orecchie accompagnato da musiche e da una voce narrante, lo spettatore è invitato a seguire, a distanza e di nascosto, un uomo in accappatoio rosa con un cappello giallo e una busta della spesa. Un consiglio: accetta i doni che ti vengono portati e indossa gli indumenti che ti vengono proposti.
Per vivere appieno l’esperienza ci si deve fidare e affidare alla camminata sgangherata del protagonista. Dopo pochi passi ci si rende conto che, se nelle cuffie viene raccontata una storia frammentata, frastornante, difficile da seguire per i forti rumori e le voci che si sovrappongono alla narrazione che continuamente si spezza e ritorna come in un loop temporale, a essere interessante è quello che accade intorno, nelle strade. I passanti guardano stupiti l’uomo in accappatoio, alcuni ragazzi lo scherniscono, i bambini lo indicano con meraviglia. Nessuno si accorge della persona che lo sta seguendo fino a che anche a lei viene portato un cappello giallo, un sacchetto della spesa e dei grandi fiori finti di plastica: è diventata l’altro. Si arriva così al termine del percorso confusi, commossi, storditi dalle persone per strada e dal racconto nelle orecchie: l’uomo in accappatoio rosa entra dentro una porta, Sesti si spoglia dei suoi abiti di scena e guardando lo spettatore negli occhi con un registratore puntato alla sua bocca gli chiede «E tu, cosa non vuoi dimenticare?». Alla fine gli porge una fotografia istantanea scattata durante il percorso e lo invita a scrivere il suo ricordo per averne memoria, poi lo accompagna all’uscita e chiude la porta.
Da questa esperienza si esce con la pelle d’oca, una fotografia in mano con su scritto un ricordo prezioso e la perdita totale dell’orientamento. Nelle orecchie, senza cuffie, continuano a risuonare un fischio e un’eco: «E tu, cosa non vuoi dimenticare?».
«Sergio? Ti ricordi…». A pronunciare come un ritornello di una musica di tempi passati il nome di Sergio è Francesca Sarteanesi nel suo spettacolo omonimo, Sergio appunto. L’atmosfera è asettica, le pareti bianche della sala del Palazzo Aloigi Luzzi si fondono con la luce, mentre i piccoli arazzi dai toni autunnali appesi contro il muro fanno pendant con l’abito color terra della donna presente in scena. Una donna sola che si veste dei colori della sua casa senza appartenerle, o meglio, vestendone il ruolo di padrona perfetta che con fatica continua a voler abitare un completo troppo stretto. «Me le sono fatte andare bene queste pareti bianche, mi ci sono dovuta abituare».
Lo spettacolo è un dialogo con un tu, il marito Sergio, che non è presente in scena. È l’esposizione di una donna sul filo del limite, è l’apertura delle porte di una casa e allo stesso tempo dell’intimità più profonda della protagonista, che cerca continuamente di svelarsi senza riuscirci del tutto. È sull’uscio, in attesa. Attesa che non verrà mai soddisfatta neanche nello spettatore, che fino alla fine spera in una risposta del marito, in una voce che le dica «sì, ti ho ascoltata, mi dispiace se non ci sono stato, ricominciamo di nuovo, insieme». Invece questa non arriva: è un dialogo letteralmente contro un muro, che ne assorbe tutti i racconti, i ricordi felici, i momenti di frustrazione, di mestizia senza restituire altro che quella bianca luce asettica. La vita la porta lei in quella casa, con le sue ossessioni per le trappole per formiche, i racconti esilaranti dei pranzi di pesce con i suoceri e le zie, le vacanze a casa degli amici. La porta lei con la sua postura dritta e nervosa, con le braccia che indicano verso quella poltrona che non c’è, verso quelle orecchie che non rispondono. «Sergio, Sergio, Sergio…»
Al termine dello spettacolo le luci asettiche si spengono, l’uscio di casa si richiude. Ogni persona in platea ripercorre in un frangente di silenzio le proprie dinamiche di vita privata. Un istante dopo si riaccendono le luci ed è uno scrosciare di applausi.