Come il romanzo incompiuto Il Monte Analogo si chiude con una virgola, così lo spettacolo L’uomo che accarezzava contropelo i pensieri, che al romanzo si ispira, comincia e non comincia, si affaccia direttamente su una sospensione. Eva Geatti dirige cinque performer (Roberto Leandro, Adriana Andy Bardi, Mattia Giacchetto, Carolina Bisioli, Patrick Platolino) che – al momento in cui facciamo il nostro ingresso nello spazio della Forgia di Centrale Fies – sembrano essere in scena già da tempo: la circolarità dei loro movimenti, l’automatismo al limite del meccanico di certi gesti li rendono simili a un grosso ingranaggio collettivo che funziona per inerzia. Un ingranaggio però rotto, o perlomeno sbilenco, incrinato da dentature e rotismi che non combaciano mai perfettamente e – seppure sottilmente – deragliano: distanziato dagli altri, ciascun performer conserva la propria e irriducibile espressività corporea, la qualità di una presenza nello spazio che è strettamente “personale”.
Gli arti inferiori sono come incollati al suolo, si spostano lungo direttrici che vengono esplicitamente segnate sul palco da nastri adesivi colorati quasi si trattasse di binari, mentre braccia e busto rimangono “liberi”, si scuotono sporcando la postura e l’impostazione. La musica sullo sfondo, ossessiva ma “in maggiore” e incrostata da sonorità 8-bit, assume la funzione di sesto performer: riempie il vuoto della scena, crea una parete intangibile su cui gli attori talvolta si appoggiano e sobbalzano, incespicando negli anfratti di un ritmo frastagliato e ricco di sincopi.
Sembra, a tratti, di essere in un flipper. Ma, allo stesso tempo, si percepisce fin da subito un’eccedenza carnale ed emozionale che si sporge oltre il disegno coreografico: ogni performer è dentro una intima dimensione di fatica, di sforzo (soprattutto agonistico, non teatrale) che rende la sua presenza sul palco in un certo senso residuale, iper-umana, imprecisa. In altre parole, Eva Geatti riesce a costruire un unico e costante flusso di modulazione delle espressioni emotive, che però non cede mai alla narratività o al sentimentalismo: è come si creasse una dimensione scenica di “sosta” fra elaborazione strutturata del gesto e “cazzeggio” di gruppo, fra estetica giocosa e stilizzata (che sterza verso il fumetto o il videogioco) e accenni di misticismo figurativo (sullo sfondo, colori dipinti sulla finestra – come fossero vetrate di una chiesa – rappresentano una montagna), fra magnetismo e mesmerismo. È vero: da un certo punto in poi la musica si incupisce e cambia di tono, la “distanza attoriale” fra i vari performer si affievolisce per dar vita a sequenze collettive e intellegibili: una corda – anzi una cordata da scalata – fa il suo ingresso in scena, fosforescente, e si intreccia su se stessa, fra i corpi. Un racconto in fin dei conti c’è: è quello della formazione di un’unione di persone, di una squadra pronta all’impresa (alla lettera del romanzo: l’assalto al Monte Analogo).
Ma l’intreccio – ovvero quell’ordito di intenzioni e materia che dà forma allo spettacolo – resta sempre al di là di un’ipotetica storia, di una successione degli eventi. Sta invece dentro lo schema degli automatismi, nell’assemblaggio di volontà coreutica e personalità individuali, nel battito incessante e soffuso di uno spettacolo (?) che si compone e (auto-)scompone su se stesso. Davvero, quasi una partita a scacchi giocata contro la scena, ma col pilota automatico: quasi a sfidare l’equilibrio compositivo, ogni tanto, i performer si levano e si sfilano uno alla volta dal palco, lasciando che a sorreggere il tutto resti un gesto di coppia, una figura, un pulsare di elettronica, un nastro adesivo per terra, un inciampo coreografico e sintattico, una, un,
L'autore
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Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.