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Gli interventi dell’assemblea “Il futuro non viene da sé”

di Altre Velocità

Che cosa ci pare debba assolutamente cambiare, nel teatro di “ieri”? Quali sono le cattive pratiche che non vogliamo più e quali gli slanci, le utopie, i desideri, i percorsi realizzabili per il teatro di domani? Sono le domande che Altre Velocità ha lanciato per Il futuro non viene da sé. Assemblea aperta dei teatri e della danza, tenutasi lunedì 27 aprile in diretta streaming. In questo articolo si tenta di restituire un resoconto ordinato delle cinque ore di assemblea, con i singoli interventi in ordine cronologico e anticipati da abstract riassuntivi (gli ultimi interventi verranno pubblicati fra qualche giorno a causa di problemi tecnici nella registrazione, ma si possono già recuperare nel video integrale dell’assemblea, disponibile sulla nostra pagina Facebook).

Nell’articolo di Lorenzo Donati “Il teatro d’ora in poi. Stati d’agitazione permanente” si possono leggere le riflessioni che ci hanno spinto a organizzare questo evento; mentre nel nostro pezzo collettivo “Dobbiamo provarci tutti“, uscito su Doppiozero come manifesto/proclama/memoir post-assemblea, tentiamo un’invettiva di rilancio per la “fase due”.


Rodolfo Sacchettini (Altre Velocità)

Il teatro probabilmente sarà l’ultimo luogo a riaprire, perché è emblematicamente il luogo dell’aggregazione, ma in questo periodo non deve essere inutile. Dobbiamo riflettere sul “come riaprire” più che sul “quando”: il settore non era nel massimo del suo splendore, schiacciato dall’iperproduttivismo e dallo spreco di risorse legati a logiche ormai vetuste, che favorivano l’accentramento in strutture enormi. Oggi invece la rivendicazione della rilevanza del teatro deve passare dai tanti luoghi in cui esiste, dai festival internazionali alle situazioni più marginali, fino al teatro ragazzi. E occorre fare un grande esercizio di immaginazione per inventarsi nuove forme di aggregazione tra la presenza fisica e quella online.

Francesca Penzo (Fattoria Vittadini)

Questa crisi rivela il problema cruciale dei settori del teatro, della danza e delle arti performative. Ora più che mai è necessario che il teatro si renda pervasivo, che costruisca architetture dove l’artista possa strutturare il proprio pensiero e agire e reagire con la società. È il momento della circolarità, di un lavoro di comunità che è capillare e sensibile, di architetture solidali e porose, di creare spazi d’ascolto dove il dialogo possa fiorire per creare. Per questo è fondamentale il dialogo con le istituzioni.

Luca Ricci (Kilowatt Festival)

Dobbiamo usare la difficoltà per trasformarla in opportunità e sostenere quei soggetti che sanno rispondere a questo momento in maniera più creativa. Le pratiche possono essere ibridate e i formati non devono per forza restare immutabili: questo apre un nuovo spazio di ricerca ma anche di fruizione per avvicinarci a un mondo che non ci conosce e che attraverso questi nuovi sistemi può avvicinarci.

Federica Rocchi (Periferico Festival)

Non esiste un nuovo teatro senza pensare un nuovo spazio urbano e senza ripensare in generale lo spazio dell’uomo. E insieme serve una forma collaborativa nuova, utopica forse, ma che apra forme inattese dell’immaginario: un festival diffuso a livello nazionale, insieme iperlocale e iperconnesso, in modo che il teatro faccia emergere una voce non univoca ma corale. La struttura che questa forma utopica richiama è quella reticolare a-centrata di Cesare Leonardi, dove la distanza tra i nodi diviene un’area di dialogo.

Roberta Ferraresi (Università La Sapienza)

Tutto è già cambiato: piuttosto che guardare al dopo pensiamo al presente, condividiamo azioni e non solo parole. I tarli strutturali del sistema emergono anche nello streaming (la bulimia del sistema, le risorse di automantenimento di strutture difficilmente sostenibili), c’è bisogno di confronti concreti: dal punto di vista artistico e produttivo è possibile riaprire i teatri subito, a porte chiuse, per chi deve provare? E per la riapertura è possibile evitare sovrapposizioni e iniziare un coordinamento? Forse potrebbe essere questa l’occasione per riflettere sulle funzioni dei soggetti degli spettacoli dal vivo, in termini di differenze e complementarietà.

Michele Mele

Serve una responsabilità per mandare avanti questa fine di un tempo. Vanno cambiate molte cattive pratiche, anche rispetto a come viene orientato il sostegno. In questo momento stiamo scontando la mancanza di tutela a livello istituzionale e non di cultura. Pochissimi potevano contare su rapporti lavorativi continuativi e questa mancanza di continuità ha generato una guerra tra poveri, non un sistema di eccellenza. Deve diventare centrale rielaborare il repertorio, limitare il numero di produzioni dei teatro pubblici e dare più spazio alle ospitalità. La danza e la musica contemporanea dovrebbero essere obbligatorie.

Isadora Angelini e Luca Serrani (Teatro Patalò)

Per le compagnie di produzione e le piccole rassegne in luoghi marginali, non sovvenzionate, il sostegno viene soltanto dal pubblico. Ma come si può sopravvivere ora? In questo momento la paura è che alcune parole come “pratica”, “esercizio” e “resistenza” stiano perdendo forza: è urgente restituir loro l’energia originaria, anche se ora non possono essere pubbliche. L’augurio è che in questo buio ognuno possa scegliere qualcuno a cui stringersi e che, in futuro, chi entrerà a teatro tenendosi per mano possa ancora sedersi vicino.

Patrizia Ghedini (Ater)

Le tematiche fondamentali da approfondire in questo momento sono la comunità e il teatro come “teatro pensato”. Nel primo caso, la comunità teatrale va intesa come quella che costruisce identità e relazioni con la molteplicità dei soggetti che ruotano attorno al teatro stesso. Si tratta cioè di una comunità più allargata, di “secondo livello”, che attraversa la realtà regionale ed è quindi fatta di anche amministratori che devono necessariamente relazionarsi con le varie situazioni territoriali e, attraverso informazioni e comparazioni, cogliere quegli elementi che rendono una realtà un’eccellenza. Il secondo punto, invece, ci ricorda che oltre che ricerca, programmazione e progettazione, il teatro è anche ciò che riguarda la qualità dei cartelloni, il rapporto con il tessuto sociale, con le scuole o il pubblico in generale. Pensare il teatro significa quindi anche approfondire quegli aspetti su cui nella quotidianità non si è particolarmente riflettuto.

Cira Santoro (Teatro Laura Betti)

I teatri pubblici sono più fortunati delle piccole realtà perché hanno più garanzie. Per questo non si sono mai fermati, pensando fin da subito a come restare aperti anche solo simbolicamente. Con Ater abbiamo creato uno spazio virtuale per continuare ad accogliere artisti, pubblico e tutti quei colleghi che in questa situazione si sono ritrovati senza lavoro. È questo il momento di porre le basi per la risoluzione delle criticità del sistema teatrale, innanzitutto riconoscendone le fragilità. Il teatro dovrebbe a ripensarsi a partire dalla propria funzione, tornando ad abitare i territori per valorizzarne i piccoli spazi di creazione. Quando si tornerà a teatro, artisti e operatori culturali avranno il compito di rimettere in piedi le comunità e la coesione sociale, ma anche di intervenire in quelli che sono i settori del welfare.

Nicola Borghesi (Kepler-452)

All’inizio di questa pandemia, la categoria dei lavoratori dello spettacolo ha fatto una brutta figura: ha lamentato le proprie repliche perse senza considerare che il coronavirus uccide e le sale sono spazi ad alto rischio di contagio. Per il futuro è necessario allontanarsi da queste cattive pratiche di auto-isolamento. Il Covid-19 è stato un moltiplicatore degli orrori del capitalismo ed è evidente come questi ora si andranno a intensificare. In molti parlano di rivoluzione, in pochi fanno la resistenza: essendo in pochi e avendo gli strumenti per farlo, il compito degli artisti è allora quello di inventare nuove pratiche di resistenza. È giunto il tempo di pensare a dispositivi capaci di stanare l’irrazionalità della legge, sempre nel rispetto di quelle misure che, invece, vanno giustamente rispettate. Tuttavia è pericoloso parlare di cosa debba fare il teatro, perché non esistono modi univoci di pensarlo: l’invito a ogni artista è di agire in ascolto alle proprie intuizioni e alla propria creatività.

Elena Scolari e Matteo Brighenti (Pac)

Il teatro è soltanto una delle tante questioni di questo orizzonte problematico: è bene allora tornare a rimetterlo in dialogo con altri settori. Se il teatro è da sempre collettore di pensiero e d’incontro, è urgente smettere di stringersi solo fra simili e tornare a mescolarsi. Quello che stiamo vivendo non è un tempo sospeso, ma sottratto e rapito: siamo stati trasformati in tanti Aldo Moro e il governo passa sopra le nostre teste oggi come allora. Dunque per dare un senso a questo periodo non dobbiamo lasciarlo passare come se niente fosse, come se non ci riguardasse: oggi più che mai, gli altri siamo noi.

Roberto Corradino

«Non sono un attore, io faccio l’attore». La percezione culturale non riconosce né ha mai riconosciuto i lavoratori dello spettacolo come professionisti, allo stesso modo i parametri ministeriali non raccontano la realtà del nostro lavoro. Più che mai oggi emerge la necessità di ridefinire il senso di questo mestiere, di ripensare il lessico con il quale ci definiamo. Produciamo spettacoli ma non siamo produttori, siamo creatori e finché non ci saremo riconosciti come tali non potremo rinominare il mondo.

Sergio Lo Gatto

Il teatro in Italia non può ancora essere considerato una comunità, che per nascere e crescere necessita di contatti umani. Per creare una comunità serve innanzitutto trasformare il teatro da spazio fisico a un luogo abitato dagli artisti e dagli spettatori, un luogo in grado di garantire uno spazio e un tempo condivisi, di creazione e fruizione. Abitare gli spazi presuppone fare assembramento e questo oggi è meno che mai possibile. Il teatro troverà una nuova grammatica a patto che gli si lasci il beneficio dello spazio che si fa luogo.

Andrea Cerri

A fronte della marginalità che caratterizza il nostro settore e del paradosso dell’iperproduttività come conseguenza del sistema dei parametri numerici del FUS, si avverte l’assenza dei nostri rappresentanti all’interno del dibattito pubblico, o forse la totale mancanza di qualcuno che ci rappresenti. Dobbiamo trovare la nostra identità come minoranza attiva e rivendicarla in quanto valore, attraverso una strategia politica che permetta di rovesciare l’impostazione quantitativa del finanziamento pubblico per ristabilire una preminenza della qualità artistica.

Marco Valerio Amico (gruppo nanou)

Se si deve immaginare un teatro privo della sua componente di prossimità, allora forse è bene non immaginarlo affatto, e aspettare fino a quando non sarà possibile rivivere il rito aggregativo del fare e del fruire teatrale. L’urgenza di tornare in scena non può prescindere le misure restrittive e i dispositivi di sicurezza utili a salvaguardare artisti e spettatori. Prima di interrogarsi su nuove possibilità di fruizione dello spettacolo dal vivo, su nuovi linguaggi e nuove forme, occorre innanzitutto riprogrammare i contenuti attraverso delle pratiche sociali che permettano di riscoprirci una comunità.

Elena Di Gioia

I luoghi della cultura, come il teatro, hanno il compito di praticare la democrazia ponendo al centro di questa pratica l’arte in relazione alla comunità. Il nostro settore è chiamato a ricostruire le comunità del futuro attraverso una battaglia culturale che riaffermi il ruolo dei lavoratori dello spettacolo. Ora più che mai è necessario sostenere gli artisti, anche produttivamente, instaurare un nuovo dialogo con le amministrazioni e ripensare a nuove forme di progettualità culturale che permettano di riprogrammare in tempi brevi il patto con gli artisti e con i cittadini venuto meno a causa del Covid.

Giorgina Pi

Questa catastrofe ha dimostrato da una parte la necessità di continuare a mantenere alto il dibattito e alimentare l’immaginario; dall’altra che gli artisti hanno fallito politicamente: il FUS non basta. Il lavoro di creazione prevede processi lunghi di studio, ricerca e gestazione, non può essere valutato soltanto con le messe in scena. È la questione dell’esposizione narcisistica e relazionale che ha distrutto il teatro e i suoi artisti: si deve tornare all’ascolto e avere un obiettivo etico, laddove l’etica risiede nel processo. Il vero atto di resistenza avviene soltanto con l’autodeterminazione delle differenze, dunque la proposta è di rifiutare le rendite di posizione e la sudditanza: i lavoratori dello spettacolo devono avere un reddito.

Anna Gesualdi (Teatringestazione)

È necessario lasciarsi alle spalle il vizio di definire e affermare il teatro: le idee diffuse che si fanno codici influenzano malamente la produzione della forma, la sperimentazione e la cultura del domani. Per questo il teatro del futuro dovrebbe fuggire dalle definizioni ed essere luogo di pluralità. Inoltre è urgente, per i creatori, tornare a dialogare e collaborare senza arroganza: è il momento di fare un passo indietro come soggetti per mandare avanti le visioni. Ricostruire il patto comunitario deve trovarsi al principio di un rinnovamento artistico costante.

Roberto Rinaldi

Per ricostruire il teatro come luogo di aggregazione sociale è necessario ripensare ai meccanismi sbagliati del sistema. Fra tutti, è importante restituire valore alle piccole realtà teatrali, tutelandone e riconoscendone i diritti. Da parte loro, le minoranze dovranno immaginare e costruire alternative per riprendersi il tempo e lo spazio dello studio e della ricerca. In questo momento è necessario ri-creare una rete, guardarsi attorno e uscire dai luoghi deputati per tornare ad abitare i territori ed entrare in contatto con le comunità.

Vincenzo Schino e Marta Bichisao (Opera Bianco)

Sono mesi di grande confusione: si cerca di seguire i numerosi articoli, post, commenti e di partecipare alle tante riflessioni pubbliche. Ma come fare a mettere ordine a questo dialogo? Come incanalare i tanti spunti in un’azione concreta? Sentiamo urgente il bisogno di arginare la solitudine degli artisti, trovando dunque necessario moltiplicare le occasioni d’incontro e i momenti collettivi per allenarsi alla comunità e (ri)costruire collettivamente un linguaggio teatrale forte, incisivo e politico. Per farlo si deve ripartire da discorsi e questioni artistiche e non subire imposizioni esterne: si tratta di ricercare un linguaggio che possa sostenere lo scambio politico.

Cristina Rizzo

Davanti a un sistema che era già in crisi e disfunzionale da prima del coronavirus, si presenta ora l’opportunità di reinventare il futuro. È necessaria una nuova gestione, più ecologica, delle risorse del Fus: bisogna rivalutare il repertorio piuttosto che spingere sulla produzione continua. Questo è anche il tempo in cui rimettere in gioco il desiderio e far accadere delle cose, con gioia, libere dai vincoli del mercato. Ora è più che mai è necessario immaginarci come intelligenza collettiva: amplificare le differenze per trovare una voce comune che ci faccia riemergere e trovare dei punti di contatto con la realtà.

Fiorenza Menni (Ateliersi)

La continuità e la discontinuità sono due elementi fondanti per far ripartire il teatro dopo questo grave momento di difficoltà. Tratteggiare una continuità con il passato significa continuare a vivere e relazionarsi con forme artistiche, proposte, artisti, istituzioni e collaboratori nel modo più inusuale possibile e al di fuori di una normalità appiattente; e riguarda anche la formazione, cioè la cura dell’altro, sebbene in forme rivisitate, cioè nell’inevitabile attuale rapporto con il digitale. La discontinuità invece ci porta a cambiare approccio nel rapporto con il tempo, la ricerca, l’estasi, l’osservazione. Tra artisti e operatori occorrerebbe un rapporto di attesa, per poter accogliere questo momento traumatico e ascoltare i conseguenti desideri, capire insieme quale nuovo palato artistico si sta formando, e metterlo in comunicazione con quello del pubblico.

Elvira Frosini (Compagnia Frosini Timpano)

Bisogna rifondare un patto con gli artisti e rimettere al centro il loro lavoro, come quello di tutti coloro che operano in questo settore. Il problema più urgente risiede in questo sistema, che dovrebbe rendere giustizia al lavoro e alla produzione che è fatta anche di tempo, ricerca, studio, riflessione e poi creazione. Il processo produttivo degli artisti, nel mentre, deve cercare il contatto con il pubblico, camminare insieme al pubblico. Dobbiamo prepararci al momento in cui ci sarà una grande fame di teatro, standoci accanto e dando vita a un teatro che entri in contatto con la realtà, un teatro che sia nel mondo e nella storia.

Michele Pascarella

Questo momento di crisi potrebbe essere una possibilità preziosa di ridimensionamento del “giudizio critico”. Infatti la pratica critica si riduce troppo spesso a giudicare, talvolta impropriamente, i percorsi di creazione artistica, piuttosto che fornire uno sguardo che restituisce connessioni, analisi ed elementi di apertura. Per questo serve un ripensamento della funzione critica: si deve cogliere questo momento come un’opportunità per connettere i vari progetti degli artisti all’interno di un panorama teatrale più ampio, allargando così il nostro sguardo e quello di coloro che incontriamo.

Andrea Cramarossa (Teatro delle Bambole)

Alla luce di questo momento critico, è fondamentale riscoprire una volontà di incontro per ricostituire una comunità (teatrale o più in generale artistica) per il piacere della reciprocità, senza un fine o un obiettivo determinato e determinante. Bisogna riappropriarsi del meccanismo del dono, della parola e del gesto, riportando così alla luce il nostro “fuoco centrale”. Uscire da quel meccanismo che ci ha costretti a una quantificazione e mercificazione di tutto e riscoprirci meno isolati, più vicini e uniti, proprio come sta accadendo ora.

Mirco Michelon

È importante partire dal presente e non concentrarsi troppo su quello che verrà in futuro. Questa “crisi nella crisi”, che ha generato forte scompiglio e terrore, deve essere uno strumento in più per progettare e ricostruire. Per dare una spiegazione a questa grave situazione, non ci è utile cercare un capro espiatorio nel mondo politico. Dobbiamo piuttosto guardare ciò che ognuno di noi ha fatto e come ognuno di noi oggi può reagire, mentre la politica, da parte sua, deve capire che la cultura è un ingranaggio dell’economia necessario.

Elisabetta Sbiroli

Un parallelismo e alcune riflessioni sulle differenze tra il sistema italiano e quello francese in materia di ammortizzatori, alla luce di una catastrofe diffusa, che non è solamente teatrale. L’invito ad attori, registi e tecnici è quello di creare un movimento importante, capace di andare oltre alle sigle sindacali.

Sergio Longobardi

L’analisi del sistema dell’intermittenza francese (il sistema di indennizzo per i lavoratori dello spettacolo), che gode di uno statuto speciale, e di altre virtuose normative europee dedicate ai lavoratori dello spettacolo, ci spinge a trovare spunti nuovi da rivolgere all’Italia.

Davide Sacco (Erosanteros)

Partendo dalle cattive pratiche del teatro di ieri, attraverso dinamiche di potere e bieche valutazioni numeriche ed economiche, la proposta è di andare verso enti pubblici capaci di sostenere folte ed eterogenee schiere di artisti associati, cercando di preservare le piccole realtà indipendenti, cercando di trovare soluzioni per alleviarne le fatiche. Concretamente, gli artisti dovrebbero mobilitarsi per chiedere al ministero di cambiare i requisiti d’accesso al fondo extra Fus, senza dimenticarsi di chiedere alla politica quale sia l’orizzonte temporale per la gestione dello spettacolo dal vivo nel corso di questa pandemia (il testo integrale dell’intervento di Sacco è stato pubblicato sul sito di Erosanteros).

Alessandro Carboni

1989, Potsdamer Platz, Berlino: il centro di una importante città europea è rappresentato da un vuoto che ha generato paura nei cittadini e che è stato gestito da Renzo Piano prima e da grandi colossi multinazionali poi. Esattamente come questo tempo che ci è stato “concesso”, il cui requisito è questo vuoto che si è creato. Questo spazio di possibilità non deve essere sopraffatto dalla paura. Siamo pronti ad accettare la condizione che questo virus ci ha posto davanti?

Cristiana Minasi (Compagnia Carullo Minasi)

L’artista non è eroe né conquistatore audace e intrepido, ma un uomo povero che si mette faccia a faccia con la paura, in modo pienamente consapevole. Gli artisti dovrebbero diventare più coraggiosi e a prendere la parola, proprio in questo momento storico, invece da tempo si sono arresi, vittime di decisioni prese dall’alto: non siamo noi a dover ascoltare Conte, ma Conte a dover ascoltare noi. Inoltre c’è la grave situazione dei bandi come capestro per le compagnie, un orizzonte limitato e limitante che quasi ha definito la nostra stessa drammaturgia, proponendo o imponendo temi di volta in volta diversi. Non ci sono più scuse, né temi: il tema è il teatro.

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