Terra desolata di T. S. Eliot, tutti accuratamente sottolineati e annotati, segno di un’attenta e inesausta lettura. Sono oggetti appartenuti a Pietro, il fratello maggiore di Filippo Ceredi, autore della performance, ormai giunta a conclusione, Between me and P, in scena il 23 e il 24 febbraio presso AtelerSì. “P” appunto come Pietro, il fratello che nel lontano 1987, a 22 anni, è scomparso senza lasciare traccia, quando Filippo aveva solo 5 anni. Una performance intima e familiare certo non facile da raccontare, visto che lo stesso autore nell’idearla ha optato per l’abdicazione alla parola detta in favore di un racconto puramente visivo. L’esibizione ha inizio nel buio della sala con Ceredi seduto a un tavolo e illuminato dalla sola luce dei cristalli liquidi del computer. La parola messa in scena è scritta dal vivo, digitata sulla tastiera e visualizzata dal pubblico in proiezione. È il via, questo, per una vera e propria “danza” virtuale, in cui, sul desktop, vengono continuamente aperti e chiusi non solo programmi di scrittura, ma anche videoclip, registrazioni audio e soprattutto immagini che raccontano, secondo punti di vista sempre diversi, gli “effetti personali” di Pietro che Filippo ha rinvenuto pochi anni prima per caso in una vecchia casa di famiglia. Lentamente emergono così, dal fondo opaco del tempo e della materia, le ombre e le luci di una personalità drammaticamente complessa e difficile da “afferrare”, come i suoi stessi amici confessano in alcune conversazioni a Filippo. Pietro sembra rifiutare l’idea di vivere la vita secondo un compromesso pacificante ed edificante con la società e il mondo, affermando piuttosto il diritto ad esercitare un conflitto, intimo e sociale, perenne, rinegoziando continuamente categorie morali precostituite. Il fascino per le brigate rosse, la lotta armata, i viaggi improvvisi in Medio Oriente così come la malattia dell’insonnia, lo studio maniacale e ansiogeno dei filosofi, le passeggiate notturne per Milano in cerca di persone sconosciute, emarginate dalla società e cadaveri da fotografare, sono solo alcuni dei nodi cruciali che segnano in modo indelebile la maturità e le riflessioni di Pietro sulla vita. La sua mente è così allo stesso tempo austera, come la sua camera, e ingombra, straripante di pensieri, tesa in una continua e straniante ricerca dai confini sempre fuggevoli. Ceredi, di formazione videomaker, svela tutto questo al pubblico attraverso un sapiente montaggio audiovisivo che alterna pieni e vuoti, senza mai “congestionare” la visione, dando piuttosto dignità e peso a quelli che sono dei veri e propri reperti archeologici, da lui stesso interrogati nel corso della ricerca.
(ph: Ilaria Scarpa)
Il virtuale ritratto di Pietro – affresco del suo momentaneo passaggio sulla terra, quasi si trattasse di un “Angelus” – è compensato dall’assemblaggio in scena dei materiali (le fotografie, i libri, i ritagli) che Ceredi dispone con estrema cura e sacralità del gesto nello spazio della blackbox. Nonostante non dia mai corpo alla propria voce, tranne che per una sola lettura, Filippo infatti non ha rinunciato a entrare in relazione con la difficile figura del fratello. Questi, mentre la madre racconta della tormentata infanzia e adolescenza di Pietro, si è vestito in giacca cravatta e occhiali da sole e ha assunto la stessa postura a braccia conserte del fratello, di cui viene per l’appunto mostrata una foto in proiezione. Uguali e sovrapposti nella stessa immagine per pochi istanti, l’impressione svanisce subito dopo, quando Ceredi cade violentemente a terra, “colpito” dal lapsus della madre che, nell’incedere del discorso, ha confuso il nome di Pietro proprio con quello di Filippo, per poi riprendere vita in una lunga danza finale, articolata sopra le vive “macerie” del tempo, gli oggetti da lui stesso disposti in scena. Viene da chiedersi allora che tipo di creazione sia quella portata in scena dall’autore. Non un’inchiesta, non la ricostruzione dei motivi di una scomparsa, del rapporto causa effetto di un trauma, di una depressione. Forse la semplice volontà, a distanza di tempo, di prendere in mano la materia viva, gli oggetti, i ricordi lasciati da Pietro, e di leggere in mezzo a tutto questo: negli interstizi, nei margini, tra una pagina, una fotografia e un’altra, laddove probabilmente ancora oggi permane, leggera, la sua presenza, ineluttabilmente legata al peso di una scelta drastica e atroce. Scelta che, come è possibile leggere in un’ultimissima lettera scritta a un amico prima di scomparire, lo stesso Pietro ha definito “non coraggiosa, ma certamente reale”. Su queste parole il buio piomba in sala a segnare la fine della performance. Tutto rimane immobile e nessuno ha il coraggio di fiatare. Un unica domanda echeggia, forse, solitaria. Che cosa è reale?Vittoria Majorana
A corredo della recensione suggeriamo la lettura dell’articolo “Che cos’è il desktop documentario?” di Cecilia Valenti: un approfondimento del Tascabile sull’estetica dei video-saggi che “si montano” da soli sul desktop del computer, stratificando di volta in volta immagini, video, file e link di ogni sorta e costruendo una narrazione di documenti pienamente digitale. *Dal siciliano”Nuddu ti po cogghiri”, verso della canzone Cirasa di Jinnaru di Cesare Basile]]>L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.