I cinema a luci rosse sembrano ormai appartenere a un mondo perduto, quasi un’anticaglia, un’eco di realtà non più marginale, nel senso anche sociale e politico del termine, ma definitivamente sommersa. Ogni tanto la pubblicistica se ne ricorda, andando a “mappare” i pochi ancora rimasti in giro per la penisola e li tratta, giustamente, come una curiosità di costume, un sismografo giornalistico del come eravamo. Certo, la graduale scomparsa delle sale per proiezioni di natura erotica può essere semplicemente ricollegata alla crisi dei cinema tout court e alla sempre più pervasiva proliferazione dell’home video, delle piattaforme, dello streaming, ecc. E, dunque, considerata un mero sottoprodotto di una più generale riconfigurazione del modo di fruire l’arte su pellicola. Senonché, il crollo di vendite ai botteghini è, tutto sommato, ancora un crollo relativo mentre il carattere così peculiare e specifico delle sale a luci rosse non può non far pensare a un rimando con un mutato rapporto con il sesso e la sessualità, forse con la cultura dell’incontro tutta, che è andato facendosi strada negli ultimi decenni.
Complice la distanza dal primo debutto dello spettacolo (ventidue anni fa), si arriva in qualche modo carichi di queste sovrastrutture alla visione di Cinema Cielo, spettacolo di Danio Manfredini rimesso in scena all’Arena del Sole di Bologna. Ma è anche una delle prime immagini che si materializza sul palco a stabilire in un certo senso il calco di un raffronto inevitabile, una corda lanciata fra passato e presente (o, ancor meglio, fra rappresentazione e presenza) che è impossibile da recidere: la scenografia ricostruisce in tutto e per tutto la platea di un cinema, con poltroncine, spettatori seduti (alcuni sono dei manichini) e teloni sulle pareti di sfondo, a far da specchio perfetto alla platea teatrale, il luogo da cui guardiamo. Come a dire che, nonostante Cinema Cielo non ambisca mai a bucare la quarta parete né a creare cortocircuiti fra realtà e finzione, fra lo statuto degli attori e quello del pubblico, permane comunque per tutta la durata della performance una tensione meta-teatrale che ci interroga, forse più in quanto comunità che a livello individuale. Ancora, il fluire del tempo (storico) fa la sua parte: sembra difficile immergersi completamente nella dimensione della scena, dimenticando quanto la sala raccontata sul palco da Danio Manfredini (il cinema Cielo era un cinema a luci rossi realmente esistente a Milano), coi suoi sedili scalcagnati e la sua umanità picarescamente dolente, sia, o appaia perlomeno, distante dalla sala antistante del maggiore teatro del centro di Bologna nel 2025.
Ecco allora che tutto arriva quasi come un riverbero: i gesti degli attori (assieme a Manfredini, Patrizia Aroldi, Vincenzo Del Prete e Giuseppe Semeraro), ammantati dell’imperturbabile e quasi serafica precisione di chi sta rimettendo in scena se stesso, i suoni impastati delle voci da un lato e delle registrazioni dall’altro (un progetto di film dell’autore e attore lombardo da Nostra Signora dei Fiori di Jean Genet), le luci che vanno a rimodellare i corpi dei personaggi senza però deformarli o trasfigurarli, ma quasi decorandone la parvenza finzionale. Cinema Cielo – spettacolo che compie una “ronde” del piacere e dell’amore al termine della notte, fra marchettari sordomuti, migranti con un piede nella delinquenza, transessuali in cerca d’emancipazione dalla propria biografia, cassiere prive di comprensione – non questua consenso, forse nemmeno partecipazione o complicità. Né, al tempo stesso, chiede di essere ammirato come una sorta di classico della scena contemporanea. Piuttosto, sembra sostare a testimonianza di una diuturna energia, di un’inestricabile bisogno di ingolfata tenerezza che, se pur diventa più o meno intellegibile col mutare dei codici teatrali e dei contesti sociali, cionondimeno costituisce da sempre il fondo ineluttabile di ogni drammaturgia più sentita, di ogni mistica terrena com’è poi, talvolta, l’agire sulla scena.
L'autore
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Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.