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(foto di Masiar Pasquali)
(foto di Masiar Pasquali)

Il ritorno del Re Arlecchino. Disperazione e umorismo nel teatro di Zaches

di Giuseppe Di Lorenzo

Dovessi davvero raccontarvi Arlecchino vi farei un torto che difficilmente mi perdonereste, per cui vi descriverò solo la prima scena. Contesto: Teatro Metastasio di Prato, programmazione del teatro per ragazzi (Met Ragazzi), fuori dal teatro una nebbiolina serpenteggia tra le strade, perfetto foyer per uno spettacolo decadente. La scena è permeata dalle ombre e da luci tenue, siamo di fronte a un vecchio teatro dismesso da tempo e dal tempo. Da un bidone dell’immondizia sorge la Morte, un burattino abbastanza realistico da mettere soggezione, ma dai modi bruschi e nevrotici che lo rende immediatamente amabile al pubblico. Intona in modo amatoriale La Traviata (“Libiamo ne’ lieti calici”) ma si ferma quasi subito, dimentico e spaesato: «Battuta! Tartaglia la battuta!». Per chi non li avesse ancora notati ecco tre topini comparire da uno dei palchi abbandonati, tre come i corvi di Cenerentola, tre come gli attori che ci sono in scena nei loro spettacoli, tre come “La gatta” nella smorfia, capace con i suoi occhi di penetrare nell’oscurità dei sogni e carpire verità nascoste.

Brighella, Scapino e Tartaglia sono tre topini che abitano il teatro e tengono compagnia alla Morte, che sembra passare il suo tempo nostalgica del teatro che fu, la sua tradizione, il suo grandeur. La Morte è anche ossessionata dalla figura di Arlecchino, che ci viene descritto come colui che quel teatro lo salverà di certo, che tornerà come un Re a richiamare il suo popolo per riconquistare il posto che gli spetta nella storia. Ma non è Arlecchino colui che si intrufola nella platea abbandonata, bensì tre pulcinella, dotati di pochi ma utili oggetti, che peregrinano di teatro in teatro alla ricerca proprio di Arlecchino. I costumi sembrano quelli degli affreschi del Tiepolo nel palazzo veneziano di Ca’ Rezzonico, e come quei pulcinella anche questi sembrano assolutamente spontanei nel lasciarsi innervare dalle emozioni che provano. Saltano l’uno sull’altro, spaventati da un rumore improvviso, piangono per un nonnulla, ridono, scherzano, si fanno le marachelle, tre personaggi in cui riusciamo a riconoscere dei precisi caratteri (c’è il pulcinella che motiva gli altri, quello che è sempre fra le nuvole, quello che vuole solo scherzare) ma la loro forza è nell’amicizia che li lega e nella fiducia incrollabile che una volta trovato Re Arlecchino, tutto tornerà come prima.

(foto di Masiar Pasquali)

Il fatto che questa messa in scena sia dedicata a Eugenio Allegri non è un caso ma non è neanche un riferimento drammaturgico in senso stretto, è la dedica a una mancata collaborazione, un progetto da incastonare nel carnevale di Follonica, un lavoro che avrebbe messo in contatto la compagnia con la comunità locale. Purtroppo Allegri ci ha lasciati a maggio del 2022, e non mi tolgo dalla testa che la Morte sia là, in scena, anche per quello. Arlecchino è un omaggio al teatro che non assomiglia per nulla a un omaggio, perché non ne ha la estemporaneità, l’effimera sensazione di cordoglio e malinconia, ma è invece un gesto che lacera il sipario, che rimesta nelle origini demoniache del personaggio di Arlecchino, che ruba con malizia dai registri pop (Il Fantasma dell’Opera), dalla Commedia dell’Arte e gli affreschi di Giandomenico Tiepolo, è arte viva e quantomai urgente.

Urgente, un aggettivo tra i più deprecabili della critica contemporanea, perché usato come un abbaglio retorico per distrarre da cosa s’intenda davvero per urgente. Ciò che è urgente è pressante, sollecitante, ti fa alzare dalla sedia per agire ora, subito. Quanti spettacoli si meriterebbero un aggettivo del genere? Non fu Totò a dire che l’attore dovrebbe sempre avere fame in scena? E non credo si riferisse a una fame metaforica: i tre pulcinella, presi dai morsi dei loro stomaci vuoti, si sono divisi una mosca catturata non senza fatica, zampe, ali, torso, un pasto ingrato ma sufficiente per portare avanti la missione. Arlecchino è uno spettacolo urgente, perché mostra lo stato di dismissione della cultura nel nostro paese, quel teatro decrepito e in disuso che esaurisce la scenografia è specchio riflesso del nostro in cui siamo seduti mentre assistiamo alle pièce. La Morte siamo noi pubblico, che rinvanghiamo la gloria e il furore di un teatro le cui carni erano rosse e livide, sempre più nostalgici e infreddoliti. La disperazione e l’umorismo di Arlecchino sono poi un grande e spontaneo omaggio alla tradizionale napoletana, alla sua amara consapevolezza e al suo saper ridere sopra ogni disgrazia, di trovare la poesia anche un cappotto rubato la vigilia di Natale. I tre pulcinella in scena sono sgraziati e al tempo stesso atletici, sono pigri eppure instancabili. Non si fermeranno finché non avranno trovato il loro Re. E noi? Siamo pronti a seguirli?

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