Questo articolo è frutto di un accordo di media partnership tra Altre Velocità e Residenze Digitali
Dal 28 novembre all’1 dicembre si tiene la Settimana delle Residenze Digitali, il festival che promuove la sperimentazione delle performing arts nell’ambito dello spazio digitale, ideato dal Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt), in partenariato con l’Associazione Marchigiana Attività Teatrali AMAT, il Centro di Residenza Emilia-Romagna (L’arboreto – Teatro Dimora │ La Corte Ospitale), l’Associazione ZONA K di Milano, Fondazione Piemonte dal Vivo – Lavanderia a Vapore, C.U.R.A. – Centro Umbro Residenze Artistiche e, da quest’anno, il Centro di produzione di danza e arti performative Fuorimargine, in Sardegna, e l’Associazione Quarantasettezeroquattro (In\Visible Cities – Festival urbano multimediale) di Gorizia. Abbiamo incontrato Lucia Franchi della direzione artistica e i vincitori del bando (Valerie Tameu, Filippo Rosati, Simone Arganini/Rocco Punghellini, Ruggero Franceschini) che prendono parte alla quinta edizione del festival con l’obiettivo di indagare il processo di genesi dei vari progetti e di definire gli apporti e le potenzialità del mezzo digitale rispetto al mondo dello spettacolo dal vivo.
Lucia Franchi (direttrice artistica, insieme a Luca Ricci, di Capotrave/Kilowatt) racconta quest’ultima edizione come quella che, dal 2020, si sia maggiormente avvicinata al raggiungimento dell’obiettivo che il festival si propone: una riflessione quasi semiotica sullo spazio digitale, «dove si esplica l’opera, la ricerca, e anche dove si accoglie il pubblico». Nei lavori dei quattro artisti selezionati per la residenza, portatori di percorsi, poetiche e rapporti con il digitale molto diversi, individua due approcci analitici comuni: se in Franceschini e Tameu il digitale è un linguaggio che comunica con immagini e temi ancestrali, storici e culturali, invece Arganini/Punghellini e Rosati «portano avanti l’esplorazione dentro un mondo che è già digitale». Ogni artista è stato assegnato agli spazi e alle attenzioni dei diversi partner di Residenze Digitali, il periodo di creazione è stato seguito con momenti di condivisione dei progressi, dei dubbi e di riflessioni sulla principale missione del progetto, ovvero mantenere le caratteristiche dello spettacolo dal vivo, pensare l’«interazione con il pubblico in una maniera funzionale all’opera».
Il nostro presente è frastornato dall’incalzante ritmo dell’avanzamento tecnologico e l’arte, che «da sempre per vocazione va lì dove c’è il buio del mondo», ha il compito di rielaborarlo, coi suoi tempi e i suoi strumenti che, secondo Franchi, possono essere più democratici ed educativi. Il “buio” del digitale non è una sua propria caratteristica ma è solo una foschia, creatasi a causa di un uso spesso manipolatorio dei suoi linguaggi legato a dinamiche di potere economico, fortemente interessate a definirne l’immaginario. Il discorso quindi portato avanti da Residenze Digitali è di consapevolezza degli strumenti e dei luoghi del digitale, ma senza dimenticare la ricerca prettamente artistica che attiene a una kermesse di questo tipo, le cui radici affondano in un panorama nazionale complesso e di lunga data, dove le incursioni e le ibridazioni tra digitale e performativo hanno radici solide. In controtendenza rispetto a un pubblico (quello prettamente teatrale) che si sente minacciato da dinamiche di pandemica memoria, Residenze Digitali punta sul forse ultimo spazio democratico rimasto per diffondere bellezza: una diretta su Twitch.
Valerie Tameu ci racconta che, nel suo Metabolo II: Orynthia, guiderà lo spettatore, sia in presenza che online, in una cerimonia che coinvolgerà l’acqua e il suo suono, simbolo di fertilità e di trasformazione, habitat naturale della Mami Wata, divinità sirena dell’Africa occidentale e equatoriale. È un dialogo, quello che la performer ha ideato, tra il suo desiderio di riconnettersi a una spiritualità e la tecnologia, che ha da sempre interessato il suo ambito di studi e di lavoro, anche se esclusivamente dal vivo. Decolonizzare antichi spazi e esplorarne di nuovi: se Mami Wata è nata in un mare già macchiato delle rotte degli schiavi, ora attraversato dai cavi in fibra ottica che permettono all’Occidente di cullarsi nel progresso, Tameu purifica le acque e il digitale con un pensiero nuovo, una città sommersa (l’Orynthia del titolo) dove il materico diventa online e viceversa. Il fantastico si fa speculazione di un credo, di un teatro che forse solo attraverso il digitale riporta l’artista e il pubblico a sognare, ad immaginare davvero qualcosa che non esiste e a dargli vita. Mollando gli ormeggi di qualsiasi finitezza della scatola scenica e di vecchi paradigmi stantii che vedono la presenza fisica dell’opera e dello spettatore gerarchicamente superiore a un’esperienza online, Tameu si appella alla generosità dell’artista di diventare davvero capillare, «aprire spazi digitali dove ci sono creazioni, spazi di qualità dove le persone possono perdersi e non semplicemente dietro a contenuti che spesso non hanno una funzione legata alla riflessione o ad aumentare la qualità della vita ma al contrario sono contenuti spesso tossici», condividere le sue creazioni nel mondo digitale, sì predatore, ma desideroso, come i suoi fruitori, di altri contenuti, di un’alternativa, dell’arte, davvero per tutti.
Nel 2017 a Fano, Filippo Rosati si è chiesto cosa volesse dire essere umani nell’era dell’intelligenza artificiale e come questa domanda potesse diventare motore di eventi culturali nella città marchigiana e via via espandendosi attraverso i potenti spazi dell’etere. Gli strumenti dell’associazione Umanesimo Artificiale sono quelli delle «tecnologie esponenziali» dove il vero unico limite è l’etica che l’uomo contemporaneo può imporsi, previa conoscenza dei mezzi: «intelligenza artificiale, realtà aumentata, realtà virtuale, live coding, per creare opere interattive. L’approccio è sempre quello sperimentale, lavorando con tecnologie che spesso non sono ancora applicabili al mondo dell’arte, sono più parte di una ricerca scientifica e noi cerchiamo di dargli un contesto artistico». In particolare, per Spazio Latente il campo d’indagine è una sala operatoria in un futuro abbastanza prossimo, in cui introdurre un peacemaker o un impianto neuronale non ha più alcuna differenza; in un futuro in cui non è più necessaria una menomazione fisica per potenziare il corpo umano con protesi di alta ingegneria robotica. Ecco che lo spettatore sarà chiamato a intervenire sui ricordi del paziente sotto ai ferri. Come noi contemporanei saremo chiamati (come se già non lo fossimo) a capire quanto siamo al centro dell’inevitabile e velocissimo avanzamento tecnologico; se tutti questi strumenti (perché sono solo strumenti) siano effettivamente a nostra disposizione, le loro istruzioni per l’uso fruibili a tutti. Fuori d’ogni allarmismo, Umanesimo Artificiale indaga la realtà e il limite sempre più indefinito tra la nostra carne e i nostri software, attraverso l’illimitata creazione digitale, l’unico spazio (una performance su Twitch) in cui possiamo tentare e sbagliare senza temere le conseguenze.
No Player Human è il primo lavoro del duo artistico composto dal performer Simone Arganini e il designer digitale Rocco Punghellini. I due amici sognano dai tempi di una cover band giovanile di pezzi folk anni Settanta di tornare a lavorare insieme: ci riescono grazie al bando di Residenze Digitali con un progetto di indagine antropologica mediata dalle tecnologie digitali. Il progetto parte dal concetto di “rifugio digitale”: internet inteso come spazio altro che segue paradigmi alternativi, immenso archivio di contenuti estremamente intimi e consultabili all’infinito. Con l’obiettivo di esplorare questo spazio, i due artisti introducono lo spettatore all’interno della casa di una delle figure che lo abitano: il Non Player Character (NPC), personaggio secondario dei videogiochi: «Di giorno lui sta dentro un videogioco a lavorare, a fare la sua parte e poi torna a casa, dove però non vive la sua vita in autonomia, ma continua ad essere in attesa di input dal pubblico». In questo gioco Arganini e Punghellini vestono i panni di game master, propongono delle domande a risposta multipla agli spettatori affidando loro il potere di decidere che direzione prenderà la performance. Le proposte si muovono su piani diversi, da azioni giocose e quotidiane a scelte più estreme, cercando di esplorare il confine tra empatia e sadismo dello spettatore. La scelta definitiva viene presa in base al principio di maggioranza, attraverso questo meccanismo i creatori vogliono far percepire la dimensione della comunità e il peso che ne deriva sui singoli spettatori: «Il fatto che sia online, in anonimo e che il tuo voto venga in qualche modo diluito, ti porta verso le scelte che vanno a infierire di più, verso lo spirito sadico. Spesso abbiamo questo spiraglio contrapposto a una dimensione più empatica, più in ascolto del performer». Non Player Human è un sistema aperto e in continua evoluzione; la struttura drammaturgica, definita dai creatori in seguito a molteplici esperimenti, mette in gioco una serie di variabili e lascia spazio a una quantità interminabile di risultati scenici, alimentando una continua indagine sulle dinamiche relazionali e i principi di libero arbitrio.
Ruggero Franceschini grazie al bando di Residenze Digitali presenta il suo progetto Radio Pentothal, una riflessione sul meccanismo di manipolazione delle informazioni da parte dei mass media e sul concetto di post-verità. Nato e cresciuto nell’era del passaggio da analogico a digitale, Franceschini sottolinea l’identità ambivalente della sua riflessione attraverso la scelta della radio come mezzo di comunicazione, «una tecnologia quasi analogica; un medium in cui il testo e le parole hanno un effetto emotivo molto forte sulle persone». Un meccanismo paradossale, una radio presidiata da un AI testuale, programmata e addestrata con dati estratti dal passato: un archivio di materiali risalenti ai movimenti del ‘77, dai fumetti di Andrea Pazienza alle registrazioni di Radio Alice e un linguaggio che ricalca il registro e lo stile filosofico di quegli anni. La controcultura di quell’epoca viaggia spesso sotto forma di guide, manuali, mezzi che forniscono gli strumenti per contrastare il sistema. Franceschini riprende questa dinamica trasponendola sul presente; con questo progetto vuole avviare un processo di alfabetizzazione per riappropriarsi delle tecnologie da beneficiari attivi e non più semplicemente da produttori di dati: «Paradossalmente io penso che lavorando con le tecnologie ma in rimozione, in apertura di nuovi spazi, facendo vedere come ci si può appropriare di queste cose, si possa creare la possibilità per vivere in un ambiente che ormai non è più accogliente, al quale bisogna adattarsi». Sul confine tra immaginario rivoluzionario degli anni Settanta e contesto presente, Radio Pentothal vuole fare da ponte tra il mondo dell’analogico e quello digitale, tra Millenial e Generazione Z, creando un piccolo atlante per navigare nella grande mole di informazioni in cui siamo immersi.
Voci diverse, per ruolo e percorso, hanno disegnato un panorama teatrale e tecnologico vasto e complesso, manifestando il desiderio di andare ancora oltre, di continuare a sperimentare per creare approcci sempre nuovi al mondo del performativo. Un confronto che ci ha interessato e entusiasmato, facendoci riflettere sul senso comunitario che ha spinto i molti partner di questo progetto a investire insieme su più linguaggi e strumenti. Aspettiamo trepidanti i link per connetterci a questa platea virtuale, senza avere alcuna idea su dove ci porterà una volta sedute. Come sempre d’altronde in teatro.