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(immagine di Marco Smacchia)
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Teatro e scuola: la fine di un amore? Un report

di Alessio Surian

Che brutta giornata il sette novembre 2024: un ministro dell’istruzione (e del merito) permaloso, per tre mesi, toglie il lavoro e parte dello stipendio a un “suo” salariato che l’ha duramente criticato. Brutta perché non preceduta da adeguata mobilitazione sindacale capace di rispondere innescando una commisurata risposta a un atto simile: perlomeno uno sciopero di tutti quelli che ritengono l’atto grave e illegittimo per tutto il tempo in cui il provvedimento resti in vigore.

Eppure, che bel pomeriggio quello del sette novembre, in Via Barberia, nell’Aula Secci, Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna, a condividere testimonianze e a interrogarsi sulla relazione fra teatro e educazione. Bello come l’arte di Marco Smacchia: è un suo disegno ad accogliere i partecipanti quando prendono in mano la locandina e quando lo sguardo prende la direzione del tavolo dei relatori.

Il tema del convegno è “La nostra relazione è qualcosa di diverso” e l’arte di Marco Smacchia invita a esplorare l’ascolto: un uccello non vola; si predispone al dialogo con un albero poggiando le zampe per terra, la sua ombra in direzione del tronco dell’albero; l’albero disegna una parabola verso il basso; ora è “tutto” rivolto verso l’uccello che ha becco ed occhi leggermente sollevati verso le chiome dell’albero: tutto è possibile.

Che si senta la necessità di rompere qualche schema lo testimonia il sottotitolo del convegno: “Teatro e scuola la fine di un amore?”. Per cominciare, l’educazione formale c’è, fra chi relaziona, ma anche nei saluti iniziali, quando prendono la parola la Prof.ssa Roberta Paltrinieri (Responsabile scientifico del DAMSLab del Dipartimento delle Arti), Daniele Ara (Assessore con delega alla scuola del Comune Bologna), Giuseppe Antonio Panzardi (Dirigente dell’Ufficio scolastico regionale Emilia-Romagna). L’apprezzamento per i lavori in corso e quelli svolti negli ultimi anni è pieno. In particolare, per la capacità di tessere la rete di scopo teatrale che educa attraverso il teatro e promuove innovazione, sperimentazione e ricerca. L’assessore esprime tutto il suo apprezzamento per queste iniziative vitali, ma accenna anche alla necessità di coinvolgere “fondazioni”, sintomo che, pur di fronte alle evidenze in merito ai risultati educativi e ai legami socioculturali la filiera delle istituzioni nazionali-regionali-locali non è, per ora, adeguata a pensare e rendere organico e continuativo questo tipo di pratiche nell’offerta dei servizi educativi-culturali (a quando un’interlocuzione che veda protagoniste sia le istituzioni educative, sia quelle culturali?).

La concretezza scaturita dalla rete prende subito corpo con gli interventi di Francesca Baldelli, Fulvio Buonomo, Emanuela Curatolo e Alessandra Francucci, a testimonianza delle varie declinazioni educative, dal 2018, de “La scena che educa”, collaborazione fra Altre Velocità e l’Istituto comprensivo di Bologna IC8, mettendo al centro l’educazione dello sguardo e prestando attenzione al fare, all’osservare e al testimoniare i linguaggi della scena: ogni anno sono circa 25 le classi coinvolte, in quattro diverse scuole diverse, con attività de proposte in orario curricolare, affermando la felice tensione che intreccia fare e guardare teatro. Ne sarebbe felice Tullio De Mauro (1977), già cinquant’anni fa attento ai pericoli generati dal “monolinguismo cui è assoggettata l’educazione linguistica a scuola, orientata all’adeguamento della produzione dei testi verbali al modello di uso scritto di una forma selezionata dell’idioma legato alla cultura, alla religione, alla nazione, alla classe dominante”.

Emerge chiara una preoccupazione: riuscire a non farsi “soffocare dalle proposte”: come difendere un nucleo di stabilità, di prospettiva a lungo termine di fronte al “bandificio” cui sono sottoposti gli istituti scolastici?

Appare chiaro come non ci siano le premesse per un amore a livello istituzionale; nondimeno, gli attuali rapporti possono legittimamente aspirare a divenire legami, fondamenta, vie e ponti per rendere gradualmente raggiungibile quel che al momento non sembra raggiungibile, un passo alla volta, soprattutto attingendo alla linfa dell’amore interpersonale che, nei casi più fortunati, nutre gli spazi teatrali, soprattutto quando mantengono lo spirito di autodeterminazione così vitale per il teatro e così poco consono all’infrastruttura attenta a canoni, standard e valutazioni dell’ambito scolastico.

A fornire una cornice nazionale di riferimento, anche rispetto a cosa è accaduto in questo ambito negli ultimi decenni ha pensato Loredana Perissinotto (Agita Teatro), evitando l’uso del microfono e avvicinandosi alla platea, cercando il dialogo. Fra i nodi proposti emerge un tema più volte ripreso nel pomeriggio: la capacità di non ridurre il teatro, nel rapporto con la scuola, ad un uso strumentale (come vorrebbe La Buona Scuola). Così come il teatro parte dal corpo, le metafore di Loredana Perissinotto aprono uno spazio per la materialità del teatro all’interno di un pomeriggio di parole: ricorda “le poltrone che mangiano i bambini” e il pensiero corre al rapporto desueto e, a volte, fuori scala e fuori misura, fra chi frequenta le classi scolastiche e chi si trova a gestire gli spazi scenici; ma soprattutto riparte dalla dimensione “lillipuziana” per ricordare che “da soli non si va da nessuna parte” e quindi che la collaborazione fra attori territoriali con e fra scuole viene prima dell’attenzione per i bandi e a favore di un legame non solo fra scuola e palcoscenico, ma innanzitutto fra teatro e società. Quali legami? Pur non evocata esplicitamente, è presente l’idea freireana di un’educazione popolare che privilegi come intrinsecamente legate la lettura del mondo e la lettura della parola, nutrite da una dimensione di scambi all’interno di un collettivo attenta a coltivare sguardi critici.

Proprio in linea con questa prospettiva sono stati presentati da Francesca Baldelli gli esiti del recente lavoro triennale, teso a “fare comunità attraverso condivisioni e riflessione comune”, mettendo a disposizione tutor “interni” al sistema scolastico attenti ai patti territoriali di comunità. Ennesima conferma che assecondare la “crescita” del nostro saper essere “spettatori” allena lo sguardo anche ad una più generale capacità di cogliere il punto di vista dei nostri interlocutori, rendendoci maggiormente consapevoli dell’adeguatezza delle nostre relazioni, tema centrale dei laboratori ospitati dall’istituto Fermi “Se urli non ti sento”. Fra le luci che si accendono grazie a queste esperienze educative c’è dunque una maggiore consapevolezza riguardo al coltivare benessere come capacità di impostare relazioni improntate sia al riconoscimento di sé, sia delle altre persone, praticando decentramento emotivo. Le ombre comprendono le difficoltà gestionali e economiche e quelle nel perseguire una prospettiva interdisciplinare che non confini il rapporto con le arti alle sole discipline umanistiche.

Federica Zanetti ha quindi invitato a dialogare sei voci protagoniste nel proporre percorsi che legano teatro e scuola. Le prime due esperienze hanno continuato ad esplorare il territorio bolognese. Giovanna Renzi (medie Caracci Guinizzelli IC8 e Istituto Fermi) è tornata sul tema del possibile riduzionismo nel guardare al teatro come strumento educativo: nelle pratiche con cui collabora è piuttosto generativo considerare il teatro come luogo capace di innescare esperienze forti perché aperte a un linguaggio “totale”. In particolare, ha ripercorso i dieci anni del Teatro dell’argine, capace di rompere una visione unidirezionale e di riconoscere che i docenti fanno teatro, sono protagonisti di relazioni di dialogo in un setting preciso. Questa consapevolezza porta a prestare attenzione e a far spazio a chi “non ha la parola”, a chi si trova in una condizione fragile. A partire da questa premessa è quindi possibile porre una domanda che dovrebbe essere irrinunciabile in una scuola democratica: a quali narrazioni collettive è possibile dar vita? Il teatro può essere uno spazio particolarmente fertile per elaborare risposte quando non lo si intenda in ambito scolastico solo come ambito per veicolare i “contenuti del programma”. Come porre un limite a questo atteggiamento? Innanzitutto, pensando a “seminare” i percorsi teatrali in tutte le discipline, opportunità per i docenti per “vedere” gli studenti in modo diverso, insieme al “far memoria”, condividere e … continuare a giocare.

Cristian Tracai (IT Crescenzi Pacinotti, Sirani) ha sottolineato questo aspetto rilevando che spesso di dispone di tanti contenitori ma poco tempo per pensare i contenuti. Quel che distingue un’intenzione teatrale è la “ferita”: “Se non ci sono ferite non c’è teatro”. Questa radice del desiderio narrativo suggerisce uno spazio di superamento della solitudine dei saperi (disciplinari) a favore dell’individuazione di dimensioni di unitarietà dei saperi che trovano un punto di caduta nella progettazione di spazi aperti alle sperimentazioni.

A partire dalle esperienze vissute nel Liceo Toschi di Parma, Vincenzo Picone è tornato sulla domanda posta dal sottotitolo del convegno e con le parole di Silvano Agosti ha proposto la tesi per cui “se un amore finisce vuol dire che non è mai iniziato”. Ma non è detto che, aldilà dell’amore, non si possano coltivare innamoramenti. Al cuore di queste condizioni affettive ha esplicitato un interrogativo etico e pratico: come si fa ad imparare ad amare e quindi prendersi cura delle nuove generazioni? Per cominciare, rinunciando a utilizzare in ambito scolastico la metafora dell’istruire, colmare gli altri di tecniche e contenuti, a favore dell’educere, in chiave maieutica, prospettiva di ricerca della Rete di scopo per la sperimentazione nell’ambito dei licei artistici per l’attivazione dell’indirizzo teatrale in quattro regioni italiane.

Vincenzo Picone ha messo al centro della riflessione la capacità di confrontarsi e di saper rompere le norme, in primo luogo coltivando la capacità di “fare” e l’ha collegato con un’opera del 1837 rimasta incompiuta di Georg Büchner “Woyzeck”; un’incompiutezza così generativa da far germogliare il “Wozzeck” di Alban Berg, il film omonimo di Werner Herzog e il musical di Robert Wilson e Tom Waits, occasioni per esplorare le relazioni asimmetriche ed i loro effetti, la violenza che attraversa le relazioni sociali e produce esclusione e isolamento. Che spazio lasciamo nei contesti scolastici per la sensibilità verso queste asimmetrie, verso Marta (11 anni) che scrive: “La disperazione danza nella nebbia, buona follia a tutti”. Una prima sfida riguarda la nostra dimensione introspettiva quando affronta il nostro agire come “doppia natura”: il tentativo di conciliare dimensione orizzontale (legata al logos, alle relazioni, all’istruzione, al lavoro, alla cultura) con quella verticale (spirituale, l’anelito a trovare risposte alla domanda: Chi sono io?). “Può un albero di mele trasformarsi in un albero di pere? Sì con un buon innesto”.

Anche Monica Brindicci (Liceo Classico, Linguistico Vico, Napoli, con Aula teatrale), esperta di teatro del ‘600 e ‘900, ha esplicitato come asse del suo intervento una tensione: quella fra teatro come contenuto e/o come metodo: “è difficile educare al teatro se non si vede e vive teatro”. In linea con questa constatazione ha condiviso esperienze significative che vanno dalle 30 ore di didattica per la conoscenza del sé inserite in un percorso di orientamento alle sperimentazioni nel liceo in chiave di identità teatrale “anche in assenza di curvatura ufficiale”, così come nell’ultimo quinquennio si è assistito a spazi di sperimentazione in questa direzione in licei attenti alla dimensione “digitale” e nei licei linguistici. Insomma, “esistono nuovi amori”, anche quando cominciano quasi in solitudine, come per le prime collaborazioni col Teatro Bellini, con cui sono stati realizzati percorsi di alternanza scuola-lavoro (PCTO) e con cui è stato possibile concordare per gli studenti sia la visione dello spettacolo dalla sala, sia da dietro le quinte, e anche una breve partecipazione in scena.

Elemento chiave e motivante è l’intenzione dello “strappare libertà politiche”, saper attivare azioni e relazioni teatrali ovunque, compreso l’Istituto Penale per i Minorenni di Nisida. Un focus che rimane costante è quello sensibile alla povertà culturale e emotiva, a cominciare dalla riluttanza ad esibirsi di fronte ai compagni (anche in relazione ai timori di finire in “gogne” legate alle chat online). Ma più in generale, si registra la difficoltà nel concentrarsi, nel mettersi in ascolto; ma il teatro è lì, a mostrare le infinite opportunità dell’ascoltare e del rubare atti significativi di umanità e poesia. In questo percorso è stato importante il sostegno di Agita e della Fondazione Alessandro Pavesi e dei percorsi di lettura ad alta voce.

Maurizia Di Stefano (Movimento di Cooperazione Educativa, MCE) e formatrice nei Centri per l’Istruzione degli Adulti (CPIA), ha ripreso il filo del discorso sul “fare” ponendo l’accento sul “fare con, fare comunità fra dispari, prestando attenzione alle intersezionalità”. Grazie alla su collaborazione, come tutor, con l’associazione Asinitas (per insegnamento dell’italiano come lingua seconda) ha esplorato le relazioni nell’ambito dell’apprendimento della lingua italiana, ambito in cui è indispensabile mettere in discussione il monolinguismo e favorire attività che valorizzano la comunicazione visiva e nonverbale. Per esempio, dando spazio all’incrocio di sguardi anche quando culturalmente il contatto visivo possa apparire problematico. Fra le diverse pratiche vi è quella di Fabiana Iacozzilli quando propone il ricorso allo “sguardo differito” utilizzando giganti (grandi pupazzi di carta) che sollecitano di rivolgere il nostro sguardo al “gigante”, coordinando lo sguardo e creando complicità (ma senza guardarsi negli occhi) con almeno un’altra persona. O, pensando ai gesti, divengono generative in ambito didattico la scrittura in movimento (Patrick Douare), così come le modalità che permettono di insegnarsi a vicenda piccoli gesti per una coreografia finale, come nel caso della partitura di gesti sperimentata per mettere in scena “Ode alla casa abbandonata” dove Pablo Neruda, a proposito della casa, ricorda “quanto amiamo il tuo cuore di pietra”. In ambito scolastico è importante esplicitare come attraverso il gesto si elaborano concetti e, rispetto alla voce, sia possibile mettere in rilievo anche gli aspetti prelinguistici, soprattutto quando lo spazio scenico è gestito in chiave di regia teatrale, dove il regista, a differenza dell’insegnante, senta la libertà di inseguire i propri demoni.

In chiusura di questa intensa sessione, Massimiliano Briarava (ITE Casalecchio di Reno) ha posto l’attenzione sull’ampia percentuale di studenti con disturbi di apprendimento e su come condividere spazi e idee nella scuola prestando attenzione alle fragilità e al mondo interiore di chi studia attivando pratiche di inclusione. In questa chiave il teatro offre opportunità sia per fornire sostegno ai docenti e per una lettura delle relazioni e azioni quotidiane in chiave teatrale (come suggerisce Erving Goffman), sia come spazio (extra)curricolare, purché sappia includere tutti e tutte le discipline, nell’orario del mattino. Significativa, a questo proposito, all’ITE di Casalecchio di Reno è stata la lettura ad alta voce di Rosso Malpelo di Giovanni Verga.

Senza pausa, Lorenzo Donati ha coordinato l’ultima sessione di lavoro – attenta alla domanda “come vedere?”, al ruolo degli spettatori – a partire da sei testimonianze e riflessioni, non prima di rivolgere un pensiero al clima nazionale di censura che ha punito il docente Christian Raimo cui è stata espressa solidarietà. A questo riguardo ha richiamato l’importanza dell’educare lo sguardo ad un registro dialogante, senza nascondere le difficoltà e le domande. Per esempio: come convivere con il lavoro dell’educare lo sguardo quando manca il gradimento dei ragazzi riguardo a quanto viene proposto in scena?

Alla domanda “come vedere?” hanno cominciato a rispondere Giuseppe Antelmo e Alice Beggiolin (Casa dello spettatore, Roma + Milano) mettendo in evidenza il teatro come “palestra dello sguardo”, una traiettoria da percorrere per gradi, in coabitazione e dialogo con altre forme d’arte e con i social network (sarebbe assurdo lasciarli fuori dai luoghi e dai processi di apprendimento). In questo contesto, il pubblico va riconosciuto come parte del linguaggio teatrale: “Se tutto il mondo è un palcoscenico, il pubblico dove si mette?” chiedeva un bambino. Senza pubblico non si tratta di teatro, ma di “prove” teatrali, risponde Giuseppe Antelmo che cita anche Giorgio Testa quando rende esplicita che la didattica della visione poggia su didattica della lettura e di un approccio al teatro come linguaggio: imparare a vedere teatro è come imparare a leggere. La sfida è collocare questa consapevolezza in contesti in cui si vedono migliaia di immagini al giorno e forse cinque spettacoli teatrali all’anno. Divengono quindi importanti iniziative come Tre volte almeno, con riferimento al numero di libri letti nell’arco di un anno che l’Istat ritiene indispensabili per dirsi lettori). Tre volte almeno propone quindi almeno tre visioni (ma sarebbe meglio sette) di spettacoli all’interno di una logica di percorso e accompagnamento.

Daniela Rimei (Amat, Marche) ha condiviso i principi e le pratiche di Scuola di platea: 20 anni di percorsi in 10 città, coinvolgendo ogni anno circa 30 istituti superiori con un focus su insegnanti e sulle stagioni teatrali comunali attraverso la scelta di 2-3 spettacoli cui far partecipare, previo un incontro, gli studenti che vengono sollecitati a predisporre la propria visione e a incontrare la compagnia teatrale dopo lo spettacolo per dialogare insieme. Cosa fare, per tornare alla domanda di Lorenzo Donati, quando si tratta di “incontri mancati”, quando lo spettacolo non piace agli studenti e magari anche da parte della compagnia si prende distanza da un pubblico che non ne ha apprezzato il lavoro? Scriversi è una prima opzione, per considerare questi momenti come interessanti, un’occasione per entrare nei processi. In ognuna di queste situazioni è poi importante verificare se e in che modo vada affronta insieme alle insegnanti coinvolte; e, a livello istituzionale, se non vada problematizzato l’assioma per cui l’engagement degli studenti debba sfociare in “consenso”. In tempo di machine learning e intelligenza artificiale può risultare generativo riandare all’articolo scientifico Attention is all you need (2017) determinante nello sviluppo dell’attuale intelligenza artificiale relazionale e alla sua attenzione per gli elementi di “posizionalità”, la consapevolezza e la prospettiva delle singole parti rispetto al contesto più generale.

Neppure Maddalena Giovannelli (Stratagemmi, con sede a Milano, USI, Lugano) si è tirata indietro rispetto ai momenti di dissenso rilevando quanto valga la pena tenere presente le difficoltà che molti hanno a “star fermi” in una sala e invitando a esperire teatro anche quando non lo consideriamo di nostro gradimento proprio in funzione di allenare la nostra capacità critica, l’abilità di saper sviluppare l’argomentazione del dissenso. Cosa fare nei momenti “no”? So-stare nel disagio, suggerisce Maddalena Giovannelli, così come Donna Haraway legge i nostri tempi, in chiave femminista, in funzione di quanto siamo disposti a “stare con i guai”, stay with trouble, attenti a coltivare parentele anche oltre quel che definiamo umano.

Quasi in conclusione, Agnese Doria (Altre Velocità), ha tracciato un efficace legame fra l’educazione dello sguardo e l’elaborazione del lutto, la capacità di affrontare il presente come opportunità, un po’ come il pescare la carta dell’Arcano senza nome (“la fine è l’inizio”) ci parla di trasformazione e di saper curare il qui ed ora. Questo atteggiamento risulta indispensabile dopo aver vissuto un eccesso di sovraesposizione a dogmi della crescita e dello sguardo ricolto soprattutto al futuro; il principale antidoto all’ubriacatura da “crescita” si chiama “cittadinanza”: dare un senso nuovo alla dimensione collettiva e, al contempo, saper coltivare uno sguardo anche critico e polemico. Con queste basi è possibile educare alla speranza:

  • all’umanità/anima/bene comune (mettersi nei panni degli altri), “pensare alla collettività” ricordava recentemente Elio germano; alla percezione delle posizioni dell’attore e dello spettatore: la capacità di uscire fuori, così come quella dell’entrare in sé;
  • al rispetto (da respĭcĭo = ri-guardare), investire tempo per osservare (anche l’invisibile), percepire come le pause rientrino nella scrittura (Nicola Borghesi, di Kepler, si mostra particolarmente attento, per esempio, ai personaggi che dicono cose che non fanno);
  • all’incontro: fra spettatore e spettacolo i momenti decisivo in scena aprono osservazioni e riflessioni al registro della comprensione: l’opera mi legge, guarda, ascolta: quali contesti favoriscono questo tipo di incontri?

Un detto cinese che forse racchiude il senso di questo lavoro è: “una buona parola può essere come un fuoco nel freddo inverno”.

Nell’ultimo intervento, Marina Savoia (MCE, Genova), esperta di didattica della musica, ha chiesto: “Il teatro apre lo sguardo, ma su che cosa? È vitale che le rassegne che coinvolgono le scuole non scadano da incontro a passerelle per dar prestigio alle scuole. Emblematica è stata un’esperienza di teatro scaturita a scuola e presentata a Ostuni, lo spettacolo “Zuppa di mare” ha spinto chi partecipava a cooperare, per rivedere radicalmente il copione nel momento in cui più personaggi non sarebbero stati in scena, causa indisposizioni impreviste: come continuare a “fare” insieme? Nella consapevolezza delle differenze.

Un pomeriggio dunque in piena sintonia con Tullio De Mauro quando denunciava (e denuncerebbe) la “terribile unilateralità” della tendenza al monolinguismo che passa inosservata perché “abituale”, mentre “privilegia la produzione a scapito della ricezione e comprensione, l’espressività verbale a scapito d’ogni altra forma d’espressione e manipolazione ordinatrice dell’esperienza, la scrittura rispetto all’oralità, uno stile unico rispetto alla pluralità di stili propria di ogni società di qualche complessità”. Per De Mauro (1977:131-33) educazione democratica significa “educazione al rispetto della varietà linguistica ed all’uso d’ogni sorta di creatività linguistica” cui la scuola è tenuta a dare ascolto e cittadinanza.

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