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Cosa rimane dopo la catastrofe? Terminal Beach di Moritz Ostruschnjak

di Petra Cosentino Spadoni

La sensazione che attraversa Terminal Beach di Moritz Ostruschnjak, in prima nazionale nella sala
Leo Berardinis dell’Arena del Sole
domenica 3 novembre all’interno della programmazione di Gender Bender, è quella di uno spaesamento irrequieto. Il lavoro di Ostruschnjak segue il principio del “pick&mix” e del “cut&paste” accostabile al linguaggio della sfera digitale, che quotidianamente abitiamo e che a sua volta ci abita nella misura in cui si rivela notoriamente in grado di influenzare il nostro sguardo e la nostra percezione. In questo modo sembra costruirsi l’intera coreografia, attraverso un’operazione di scomposizione e ricomposizione di movimenti e scene che rapidamente si susseguono accompagnate da un’ironia eccentrica che inizia via via a prendere le forme del grottesco, in una danza di cowboy e cavalieri che voleranno, come suggerito dalle parole di Johnny Cash in sottofondo, come fantasmi nel cielo.


La coreografia inizia a prendere forma in un assolo di danza prima – o dopo – il suono, in cui il gesto scomposto vibra con l’aria che sembra mancare nella mimica di un grido senza voce. I volti si trasfigurano attraverso risate alienate che trasformano la danza in una sorta di gioco spaesante, in cui sei danzatori e danzatrici percorrono lo spazio scenico, in momenti di assolo e di coralità, lanciandosi in corse concentriche, avanzando e indietreggiando, sgretolando e ricombinando i gesti del corpo e le espressioni del viso, seguendo e fuggendo dalla musica che li accompagna in un reciproco rincorrersi e talvolta incontrarsi. L’atmosfera si muove altalenante su momenti di apparente quiete e picchi di tensione drammatica, in cui la coreografia si accorda alle distorsioni musicali restituendo un presentimento di distruzione, in cui tutto sembra frantumarsi sotto effetti sonori che rimandano ad un immaginario di allarme e devastazione.


La danza continua come in una sorta di trance attraverso le macerie. La rappresentazione perde linearità in questo vortice coreografico e musicale, in cui le immagini si creano e si disfano, in cui il gesto e il suono sembrano rincorrersi senza una direzione – forse cercandola – muovendosi prima avanti e poi indietro, e poi ancora avanti, attraverso frammenti di un passato, un presente – e un futuro? Esiste un futuro su questa spiaggia terminale? Cosa rimane dopo la rovina?


Il sovraccarico visivo e sonoro sembra non lasciare spazio ad alcuna sintesi pacificatoria: su un susseguirsi e alternarsi di musica dance e repertorio classico, i performer continuano a vorticare su pattini a rotelle e sventolando bandiere, a loro volta smembrate e manomesse nei richiami a iconografie di nazioni e marchi aziendali, che si avvicinano attraversando lo spazio scenico e unendosi alla danza. Infine, il tessuto di due bandiere bianche sventola sullo sfondo di un duello, fino a quando i due cavalieri, come marionette dalle movenze scomposte e dalle espressioni alienate, lentamente si trasfigurano accasciati al suolo. Le armature scivolano dai busti fino a ricoprire i volti mentre le luci iniziano a calare su due figure fantastiche, di corpi con teste di metallo, quasi oltre umane, prima del buio: forse in questa visione immaginifica, aliena, sulle macerie e sul buio che la circonda, si può intravedere una possibilità di immaginazione dopo la catastrofe.

Foto di Margherita Caprilli

Articolo scritto da Petra Cosentino per Speciale Gender Bender 2024

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