altrevelocita-logo-nero
459022965_1032618995530341_4996262263057271344_n

Guardare giù nel dirupo. La terza edizione di Hystrio Festival a Milano

di Altre Velocità

Un resoconto dall’ultima edizione di Hystrio Festival, tenutasi a Milano negli spazi del Teatro Elfo Puccini da martedì 17 a domenica 22 settembre 2024. Tre voci si sono messe in dialogo con alcuni dei lavori presenti nel programma, interamente dedicato a gruppi, interpreti e nuove drammaturgie della scena italiana under 35.

“Il canto del bidone” e “Un ratto”, una fiaba e una favola sulla contemporaneità

Il puzzo di fogna, l’eco di passi veloci e violenti, le luci al neon, i cerchioni di gomma sporca, sono elementi che accomunano due lavori, uno recitato, uno letto durante la penultima sera di Hystrio Festival. Nel primo caso si tratta dello spettacolo Il canto del bidone, con in scena Caterina Rosaia, Davide Sinigaglia e Tommaso Pistelli, scritto da Alice Sinigaglia e Elena C. Patacchini con la regia della stessa Sinigaglia. Il secondo è una lettura scenica a partire dal testo Un ratto, scritto da Alberto Fumagalli e letto da Fausto Russo Alesi, momento curato dall’associazione Situazione Drammatica/Progetto Il Copione che nel corso di tutto il festival ha presentato cinque testi di drammaturgia contemporanea letti a conclusione di ciascuna serata da voci di interpreti sempre differenti.

Nel primo spettacolo ci troviamo in un luogo non precisato, in un tempo molto ben definito: il nostro presente, raccontato nelle sue incongruenze e abitudini più paradossali. Caterina Rosaia e Tommaso Pistelli giocano la parte di due burattinai inquietanti che si divertono a creare nuovi esseri umani, modellandoli a piacere e adattandoli alle aspettative del ventunesimo secolo. Davide Sinigaglia è un corpo trovatosi nelle mani dei due “Mangiafuoco” in questione e, definito “un morto in via di guarigione”, e probabilmente confuso quanto il pubblico da questa definizione, si affida ai suoi maestri – di opinabile credibilità – per imparare il mestiere di vivere.

Con sarcasmo, viene messo in scena un musical depresso che ha per soggetto una cavia, un corpo adulto ormai fatto e finito, accompagnato in un percorso di formazione forzato, diverso da quello che solitamente ci viene presentato nelle favole. Davide risulta inadatto ai parametri dei tempi correnti, troppo ingenuo e all’oscuro delle dinamiche di potere, lontano dalle frivolezze che paiono essenziali per la sopravvivenza. Così i due burattinai lo invitano a prendere parte a questa danza folle in cui insieme ballano, bevono, cantano, e sembra tutto normale, se non fosse che sotto la superficie banale di canti intonati e luci attraenti, si nascondono esseri umani malevoli e cinici, privi di ogni etica. Non si capisce se stiano veramente offrendo la possibilità alla loro cavia di comprendere come adattarsi e crescere in un contesto violento, oppure se il loro sia solo un tentativo di rivincita contro un mondo spregevole che li ha allontanati.

Un pezzo di terra troppo piccola diventa lo spazio della rappresentazione, e più in senso lato, del teatro. Lo spazio della scena è perimetrato da un nastro segnaletico dentro i cui confini non ci sono regole. Il palco si trasforma da cella arida e fredda, spoglia di qualsiasi oggetto familiare (qualche pneumatico sporco, un cestino della spazzatura e oggetti da metalmeccanico), a vetrina di luoghi archetipici della assurdità del presente: un centro estetico di cura e wellness, uno stadio di calcio, una discoteca in una grande città.

È questo il migliore dei mondi che scegliamo di raccontare? Non c’è morale, alla fine dello spettacolo, «non c’è più spazio per la follia», dice uno dei due fabbricanti di esseri umani, con un sorriso furbo. Non c’è più tempo, in questo presente che va veloce; non c’è più spazio, e il teatro si prende quel poco che rimane per ammonirci, forse per rimproverarci: «Oh, come t’inganni se pensi che gl’anni non hann’ da finire bisogna morire, parte Passacaglia della vita», mentre noi ci spostiamo verso un’altra sala, scappando dalle grinfie del realismo capitalista e dei due mangiafuoco, chissà quanti altri uomini saranno stati catturati, intrappolati, quanti saranno morti, in una selezione che di naturale ha mantenuto ben poco. 

Nella lettura scenica di Un ratto non è tanto importante il tempo quanto i luoghi: le fogne delle città, i tubi, i condotti, un mondo scuro, spaventoso per alcuni, attrazione per altri, per chi abita questa terra criticandola, e sceglie di raccontare il rapporto tra questi due mondi di buio e di luce tramite un copione teatrale. Il testo di Fumagalli racconta una fiaba scritta sotto forma di monologo sulla vita di un ratto sensibile ai rapporti con altri ratti e con altri animali, tra cui gli esseri umani, contro i quali combatte per creare un mondo migliore di quello che stiamo lasciando. 

In uno spazio – e in un testo – di anarchia e controsensi, i ratti rappresentano la parte nascosta degli esseri umani, e per questo quella più affascinante. Il testo non parla di animali fetenti o pericolosi, quanto piuttosto dell’abitudine degli esseri umani ad allontanare ciò che li spaventa usando parole e concetti sgradevoli. Non sono altro che parole e concetti che servono per tracciare una linea. C’è chi sta di qua, seduto, in ascolto, sulle poltroncine, e chi sta di là, al buio di uno spazio svuotato, il palco, dove le parole si mischiano ai bisogni carnali, dove il puzzo rimane solo un odore, il brutto una forma fisica, il ratto un essere umano.

È con una divertita ingenuità che scomodiamo ratti, saltimbanchi, burattini, per sfuggire dalla forma di esseri umani che sembra non rappresentarci a pieno. Ci rifiutiamo di accettare di far parte della stessa storia, e inventiamo favole e fiabe da cui criticare la storia altrui. A ognuno la sua dose di vergogna, di insoddisfazione e amarezza, con la speranza che questo non provochi un irrigidimento, ma che generi una fatica diversa, una scomodità da cui possa nascere una nuova consapevolezza, quella a cui Fumagalli fa riferimento nell’intervista alla fine della lettura: una forza che nasce dalla consapevolezza della difficoltà, per la generazione presente ai premi Hystrio, che vuole raccontare questo tempo, questa società, in modo diverso, ripartendo da un nuovo modo di stare insieme. 

di Clara Fedi

(foto di Mali Erotico)

Questo gioco tenero e spietato. “Joanna Karol Paul” di Giulia Massimini

Uscita dal Teatro Elfo Puccini mi canticchio in testa le parole di Toffolo: “Ogni adolescenza coincide con la guerra, che sia falsa o che sia vera, che sia vinta o che sia persa”. Joanna Karol Paul è l’opera di Giulia Massimini cheha aperto la terza serata di Hystrio festival; lo spettacolo è una fotografia di questo periodo tenero e spietato, in qualche modo sempre irruento. In scena gli attori di Piracanta Teatro Ilaria Ballantini, Giovanna Giardina e Andrea Triaca.

La regista ci consegna il racconto della guerra privata di questi tre adolescenti; il ritmo è irregolare, il racconto è crudo e divertente, ci arriva a tratti lentamente, sussurrato, e poi di colpo ci esplode in faccia, come i segreti preziosi che moriamo dalla voglia di sapere ma che poi abbiamo difficoltà e paura a maneggiare. Ci troviamo a sbirciare dalla finestra di questi ragazzi, un edificio abbandonato in uno spazio indefinito. A volte prendiamo parte ai loro giochi, ci ritroviamo a rivestirli, a prendercene cura, li prendiamo in braccio. È strano il nostro posto, l’istinto adulto di aiutarli si mischia al terrore di rimettere le mani dentro tutto quel caos di cose in cui galleggia la vita di una adolescente.

L’edificio occupato dai ragazzi è uno spazio di mezzo, non è la loro cameretta e neanche la scuola, è una terra tra due dirupi, tra il gioco e la vita adulta, in cui tutto è concesso. Occupare questo spazio sembra complesso e anche definirne le regole, saper scegliere chi far entrare, di chi fidarsi e ricordarsi di mantenere sempre il frigo pieno. Joanna, Karol e Paul esplorano questo spazio, si raccontano, giocano a conoscersi; i loro piani, i desideri, i timori e i segreti vengono fuori passando per il filtro di filastrocche, sfide e indovinelli. Il loro è un gioco tenero e divertente che a volte diventa anche spietato e ricattatorio. Amicizie indissolubili ma anche fragili in cui la fiducia sfocia nella sopraffazione, l’intento tenero e spietato di un amico che ti chiede “faresti una cosa solo per me?”. La guerra privata dell’adolescenza per Giulia Massimini sembra riversarsi sempre su una questione di confini difficili da stabilire.

Scegliere un’identità, rivelare la propria e distaccarsi da quella che gli altri ci hanno appoggiato addosso. Conciliare il dentro con il fuori, le pulsioni interne che arrivano disordinate con la fisicità dei corpi esterni. Il tentativo di incastrare questi corpi con quelli degli altri, goffamente e dolorosamente, imparando l’amore. Vediamo gambe, lingue e corpi nudi che si scoprono bellissimi e pieni di cicatrici. Joanna Karol Paul ci presenta tre giovani funamboli che avanzano tentennando sui confini di questo spazio di mezzo e si guardano dentro. Guardano giù nel dirupo della loro solitudine e insicurezza e, come solo da adolescenti si ha ancora il coraggio di fare, urlano al mondo il loro bisogno di amore. E quest’urlo viene fuori in modo tenero, spietato, sempre tremendamente irruento.

di Maura De Benedetto

Quarta serata di Hystrio Festival. “Luisa” di Valentina Dal Mas

«Voglio mettere in parole, ma senza descrivere, l’esistenza della grotta che ho dipinto tempo fa… e non so come. Chiamo la grotta con il suo nome e lei inizia a vivere con il suo miasma». In un testo estremo e lacerato come Acqua viva, apparso nel 1973, Clarice Lispector sembra ricercare la parola ultima, la più adatta che possa confondersi col reale, ancora sembra rivolgersi a un tu lontano – oggi ho terminato la tela di cui ti ho parlato – o ancora si sofferma su certi istanti del mattino e della notte – siamo in piena estate – in un lavoro di scavo continuo con le cose in relazione al suo sguardo. L’intero scritto può essere considerato anche come una lunga indagine sulla scrittura – ciò che dico è puro presente e questo libro è una linea retta nello spazio – , sul suono che assumono certe parole, sulla scelta di usare le lettere dentro una ricerca incessante per trovare sempre nuovi segni al di là della storia umana dell’autrice stessa.

Per certi versi c’è il medesimo accendersi e spegnersi di un io narrante, quasi un’intermittenza, anche nella coreografia che Valentina Dal Mas costruisce a partire dall’incontro con una paziente in cura nella cooperativa sociale Primula di Valdagno, in provincia di Vicenza, nel corso di un laboratorio di teatro-danza. Il solo assume il titolo dal nome della donna, Luisa, e di lei ne riconosciamo la voce registrata, tortuosa e disarticolata, presentata in alcuni momenti. Tuttavia più che un corpo a corpo con il linguaggio e con l’invisibile l’indicibile di questa figura, sono i segni a imporsi e il lavoro non assume una forza e non destabilizza, attribuendo una funzione significante a quasi tutti i movimenti e adattandosi a un andamento piano e lineare del racconto.

Più che assumere una posizione obliqua e ambigua con questa interlocutrice speciale – infrangere o disattende questo incontro, il corpo sulla scena di Dal Mas cerca di incarnare Luisa nei gesti e nei segni, nelle corse, nei grandi movimenti dei muscoli della mascella e della mandibola, con una rosa e con una sedia, unici elementi sulla scena, ricercando per quasi cinquanta minuti un esercizio di calco e copia con una figura in assenza e non facendo altro che mostrare, dire ciò che avviene.

L’unico slittamento del linguaggio che ci allontana da ogni tipo di stabilità e ci trascina verso una qualche forma di esperienza resistente, allora, si può ricercare nella voce vibrante, nella non-parola consumata e sonnambula della paziente. Una voce, la sua, che sceglie somiglianze sbagliate – parafrasando ancora Clarice Lispector – ma che si trascina nell’intrico.

di Damiano Pellegrino

(foto di Elisa Vettori)

“Tre liriche”: una risposta difficile a una domanda molto semplice

In una stanza buia, su tre sedie illuminate si siedono due ragazzi e una ragazza. Sembrano starsi preparando. Come se qualcuno, qualche secondo prima di entrare in scena, gli avesse fatto una domanda e loro stessero cercando le parole. Prendono tempo, qualcuno rimane di schiena, qualcuno ci guarda con tono serio. 

Jacopo Neri, drammaturgo e regista, si avvicina e tenta di rispondere. Guarda la platea, come se fossero stati gli spettatori ad interrogarlo, e comincia a raccontare di un ricordo, in piedi, illuminato dietro al microfono, di quando uscì per la prima volta con una ragazza, o per la prima volta se ne innamorò. Solo che non sembrava poi così contento. L’attenzione si sposta dopo poco su Chiara Ferrara, che si sostituisce dietro al microfono e dà la sua risposta. Con occhi lucidi e voce tremante, legge una lettera, o immagina di scriverla, ad una persona amata e distante, nel segreto di chi non può rivelare il proprio amore. Dario Caccuri si intromette, si gira sulla sedia, che sembra piuttosto una stanza a sé, dalla quale si lascia andare a ipotesi di viaggi lontani, di scenari futuri in compagnia dell’unica persona che vorrebbe avere accanto a sé. Così i tre attori di Tre liriche per la penultima serata del festival portano in scena un unico grande monologo – in realtà sono tre soliloqui – come risposta a una domanda molto semplice, che forse si sono fatti, che forse gli è stata fatta: che cosa è l’amore. Lo spettacolo nasce dall’esigenza del drammaturgo, durante il 2020, di fare una ricerca sull’amore. Casualmente capitata nell’anno del Covid, quando scrivere di amore divenne atto di resistenza, quella ricerca si è trasformata in tre cicli di rappresentazioni su quanto scoperto, prodotto, ricercato. Tre liriche è un concerto di cinquanta minuti in cui gli attori si alternano, come alter ego di una stessa mente, citando testi da poesie e altri scritti di propria mano; presentano, come in un coro, il manifesto di un amore giovane e incerto, e accompagnano ogni spettatore nei ricordi di quel tempo.

Tre liriche è al contempo testamento di un amore finito ma non per questo spento, del coraggio che ci vuole ad ammettere di essere innamorati, della fragilità e anche della frustrazione che ne consegue.

Tre liriche nasce dalla paura che un giorno l’amore possa finire, e dal tentativo di ricordarsi di esso in tutte le sue forme: Jacopo, Chiara e Dario ballano la techno, sudano, piangono e ridono grevemente, impugnano un megafono, sussurrano e giocano con le ombre delle proprie mani, quasi fossero tutti sinonimi di “innamoramento”. Ciò che rimane è una vaga sensazione di malinconia e di amara consapevolezza. Ognuno di noi avrebbe forse dovuto prendersi un momento per scrivere Tre liriche, nel tempo del proprio amore.

di Clara Fedi

L'autore

Condividi questo articolo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

articoli recenti

questo articolo è di

Iscriviti alla nostra newsletter

Inviamo una mail al mese con una selezione di contenuti editoriali sul mondo del teatro, curati da Altre Velocità.