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#2 Giù la maschera

di Altre Velocità

Questi contributi fanno parte dello “Speciale Ipercorpo 2024”

Era il suo compleanno ma non lo sapevamo. Conversazione con Antonella Bertoni

Solo alla fine della conversazione con Antonella Bertoni, avvenuta nel cortile a cielo aperto degli spazi di EXATR durante la terza giornata di Ipercorpo 2024, scopriamo che la coreografa e danzatrice compie gli anni. Veste in tinta unita, giacca e pantalone grigio, le labbra ben definite da un rossetto, i capelli, anch’essi grigi, sono raccolti da una coda. E all’inizio della discussione andiamo proprio a ritroso nel tempo e attraversiamo con lei uno dei primissimi lavori della compagnia che ha fondato insieme a Michele Abbondanza. Romanzo d’infanzia di fatto è l’unico lavoro dedicato ai più piccoli e immaginato assieme a due figure speciali che hanno dedicato la vita al teatro ragazzi, una regista, Letizia Quintavalle, e un drammaturgo, Bruno Stori. «Senza di loro – ammette – mai ci saremmo azzardati a toccare una materia così delicata come quella dell’infanzia», e così decidono di fare qualcosa con loro tanto innamorati del loro teatro e dei loro spettacoli. Nel 1997 nasce Romanzo d’infanzia, uno spettacolo di teatro-danza per ragazzi; una scelta un po’ insolita e coraggiosa dato che in quegli anni questo tipo di lavori venivano isolati in una sotto-categoria. Si tratta di un lavoro che riscuoterà tanto successo, difficile da incasellare dentro precisi confini perché utilizza sia la danza sia parola, e che dopo trent’anni va ancora in giro. Dopo questo spettacolo la Francia s’interessa alla loro ricerca dedicata a un pubblico infantile e chiede al duo di coreografi nuove co-produzioni per ragazzi. Entrambi rifiutano e decidono di portare avanti uno studio sui linguaggi del corpo e del movimento, che contraddistingue il lavoro della compagnia Abbondanza/Bertoni. Lo spettacolo in programma all’interno della ventesima edizione di Ipercorpo, Femina, presenta – ci suggerisce Antonella Bertoni – una partitura coreografica intorno a dei gesti prettamente femminili, riconducibili a un genere imposto da una cultura dominante. Un presente, rovesciato nel corpo femminile, che Abbondanza/Bertoni percepisce molto omologato, appiattito, soprattutto da un punto di vista dell’immagine che gli schermi o la realtà ci restituiscono della donna. Ciascuna delle quattro figure sulla scena può rappresentare, allora, quasi un archetipo della donna nel mondo contemporaneo, rileggendola anche in chiave ironica o alienante. Dalle parole di Antonella Bertoni riconosciamo che in Femina l’immagine della donna è tradotta ridotta in un corpo sessualizzato, corpo-oggetto, corpo televisivo, stratificazione di  ricorrendo anche al corpo nudo di una bambola o di un automa. «La danza è una poesia in azione, che genera delle parole-corpo». Antonella Bertoni considera il proprio fare arte in una direzione primariamente poetica, che non politica. Le composizioni artistiche della compagnia attingono principalmente alla questione del vivere intesa come attraversamento del mistero di vita e morte. Seppur inscritto nel corso del Novecento, il lavoro di Bertoni rimane in ascolto del contemporaneo che abita, e dunque di tutti quei movimenti politici ed etici che prendono forma all’interno della società odierna. Nel racconto di Bertoni, gli ultimi progetti della compagnia, Femina e Viro, iniziano a prendere una piega maggiormente politica e sembrano guardarsi attraverso uno specchio. Entrambi i lavori, l’uno indagando il femmineo e l’altro il maschile, si configurano come scritture coreografiche astratte e nascono guidati dalla dimensione musicale. Viro ha recentemente debuttato al Festival Oriente Occidente di Rovereto. Lo spettacolo si inserisce a creare una sorta di dittico, in cui la scenografiasostituisce il nero al candore femminile di Femina e le sonorità elettroniche diventano loop prevedibili nell’accompagnare la gestualità omologata dei due performer. Una ricorrenza di elementi, dunque, che assume una valenza completamente diversa nello spostamento dello sguardo, come ci racconta la stessa Bertoni. 

a cura di Damiano Pellegrino, Petra Cosentino

Perché quel caschetto biondo? Uno sguardo su Femina di Abbondanza/Bertoni

Uno degli ambienti dell’EXATR di Forlì è allestito per accogliere Femina, spettacolo della compagnia Abbondanza-Bertoni, con Sara Cavalieri, Eleonora Chiocchini, Valentina dal Mas e Ludovica Messina Poerio, in programma nel corso della terza serata di Ipercorpo. La scena, quasi in penombra, presenta un lungo e bianco telone sullo sfondo. Esso ricade dal soffitto, fa una dolce curva e poi prosegue fino agli spalti. La stanza è presto riempita di spettatori; noi della redazione prendiamo posto fra la gente. Sediamo sui gradoni perché tutto è occupato.  Buio. Il chiacchiericcio s’interrompe e le protagoniste entrano in scena. Perché le quattro figure indossano dell’intimo color pelle, nessun abito caratterizzante e parrucche bionde a caschetto? Si siedono sfalsate, si muovono piegate sulle ginocchia, poi applaudono. Prima una, poi segue una seconda e poi di riflesso le altre due. Il meccanismo si ripeterà per quasi tutto lo spettacolo: il movimento di una coinvolgerà le altre. Non so cosa fare. Per caso vogliono che anche il pubblico le accompagni battendo le mani? Poi le quattro interpreti smettono, parte la musica: ritmica, battuta, cadenzata. Scandisce i movimenti delle danzatrici. Loro la seguono. Le tracce assomigliano a una voce grossa, mascolina che sembra dire loro cosa fare. Il ritmo prevale sull’armonia. Guardo i loro passi: riconosco tante singolarità. Cerco di isolarle. Stirare, stendere i panni, baciare… gesti di donna! Ma perché sono segni che riconduciamo solo alla sfera del femminile? Mi accorgo che è riposto qui il focus dello spettacolo: riflettere su tutte quelle imposizioni che la società attribuisce alle donne per imprigionarle in ruoli che ha scelto per loro. Mi domando se anch’io sono stato complice di un sistema come questo, in passato. Finito la spettacolo, esco dalla sala e mi guardo intorno. Mi domando cosa mai avranno pensato gli altri spettatori. «Bello!», dicono. «M’ha colpito!». Un signore ripete che ora ha molti spunti di riflessione sui quali interrogarsi; una donna è d’accordo con lui. 

a cura di Federico Lombardi

Femina o la sofferenza dell’emancipazione

In scena quattro interpreti picchiettano, schiaffeggiano, misurano, esaltano, mostrano… la loro carne. Carne come il colore delle calze, dei body, degli slip, dei perizomi e dei reggiseni che avvolgono i loro fisici filiformi e lavorati. Femina, lo spettacolo della compagnia Abbondanza/Bertoni, si incentra sul mondo femminile per come deve essere, secondo le aspettative sociali vigenti. Le luci si aprono abbaglianti e si chiudono nella penombra sul bianco ottico dello sfondo, mentre i battiti caldi, sintetici e martellanti dell’album Dysnomia di Dawn of Midi ci catturano nella suspense di una coreografia ripetitiva e ipnotica. I passi di danza convergono l’attenzione sulla carne delle varie parti del corpo: dalle mani ai seni, alle braccia e giù fino alle gambe e ai piedi affusolati.  Avvenenti e animate da uno sguardo insistente rapiscono lo spettatore e lo seducono con occhiolini, sorrisi e bacini, ma gli occhi vitrei di quegli sguardi e le mani rigide tradiscono del turbamento. La crepa fra la loro bellezza esteriore e il loro affanno interiore si apre sempre di più, quando ai loro occhi da cerbiatto associano cenni di assenso con la testa o si afflosciano a terra, esauste. Fra evoluzioni, acrobazie e sfilate si tolgono diversi strati di slip, li mordono e li sputano verso gli spettatori. Riaprono la bocca in una smorfia inquietante che per una frazione di secondo ricorda L’Urlo di Edward Munch, prima di ricomporsi subito e regalare alla platea un sorriso sghembo e innaturale. Il loro tentativo di ribellione ricorda l’irriverenza catartica di Davi Pontes e Wallace Ferreira, performer brasiliani che in Repertorio N.3, andato in scena nel mese di luglio a Santarcangelo Festival,portano il pubblico a osservare i loro corpi nudi, sbeffeggiandolo con sguardi e gesti di sfida. Se il duo brasiliano esorcizza così lo sguardo delle persone bianche che storicamente li hanno colonizzati e schiavizzati, in questo spettacolo le performer accusano l’oggettificazione del corpo femminile.  Oggi le donne, come le danzatrici in scena, stanno rivendicando le prevaricazioni subite da chi le vuole solo belle e compiacenti e si stanno riappropriando di se stesse in una lotta dialettica, che un giorno si esaurirà con la completa riappropriazione del proprio corpo. Ma i tempi non sono ancora maturi e in Femina la sovversione per ora è un’accusa silenziosa, inibita e remissiva. Così le danzatrici si congedano da noi e rimane il vuoto del telo bianco per qualche attimo a rimbombare sul sintetizzatore, fino a che non si squarcia e non si spengono le luci.

a cura di Debora Meluzzi

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