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ph Alex Giuzio
ph Alex Giuzio

Un diario per l’estate #2. Chiedersi come viviamo

di Altre Velocità

Appunti, pensieri non ancora del tutto formalizzati, suggestioni, ipotesi di discussione a partire dagli spettacoli visti. Una forma aperta, non saggistica, un racconto per frammenti ospitato una volta alla settimana, una scrittura quasi in presa diretta per provare a testimoniare la complessità e diversità delle proposte teatrali del presente.

Cattive intenzioni e rarefatte

La percezione gradualmente si sfalda e risulta arduo ricostruire l’esatta dinamica dello spettacolo. Food Court di Back to Back Theatre può essere considerato un “classico” dell’ensemble australiano, compagnia con quasi trent’anni di attività e che opera in quello che è stato chiamato “teatro sociale d’arte” (la definizione è di Andrea Porcheddu). Il gruppo è passato di recente alla Biennale Teatro anche per ritirarne la massima onorificenza, il Leone d’oro alla carriera, assegnato loro con coraggio dai direttori Stefano Ricci e Gianni Forte. Il fronte scena, come un golfo mistico a vista, è occupato da una band che accompagna l’azione a ritmi di improvvisazioni, indulgendo verso un progressive nu-jazz, caricando l’atmosfera di inquiete sincopi. In scena entra un uomo che porta una sedia sul proscenio. Lo seguono dapprima due ragazze con sindrome di down, vestono appariscenti tutù ginnici, i loro corpi sembrano voler uscire dalla contenzione delle vesti attillate, senza mai divenire freak. C’è un uomo con un microfono cinematografico, quelli con aste che permettono di non entrare nel campo visivo. Viene dunque “data la voce”, c’è qualcuno che dà loro la parola (come nelle nostre buone intenzioni?). Il dialogo ora si dispone nello spazio, una terza attrice era entrata claudicando vistosamente, quasi perdendo l’equilibrio a ogni passo, sono i segni di una patologia fisica. Nello spazio, mentre dietro si proiettano atmosfere fantasy esotiche di un qualche bosco, parte un dissing rivolto a una delle tre: sei grassa, tu sei la puzza, non sei niente, cicciona freak, e così via. Un body shaming in piena regola, fra pari. La lentezza di ogni azione è esasperante, siamo costretti a puntare lo sguardo su ogni singolo gesto, mentre alla ragazza viene intimato di spogliarsi e finirà per giacere a terra, forse atterrata dagli insulti. Nel finale un fiume di parole ci porta sull’isola di Calibano, verso la diversità per antonomasia, quella che scacciamo ma pure capace di indurre il sogno, come scrisse Shakespeare.
La sensazione è di avere assistito agli esiti della scrittura di una “mente teatrale” davvero diversa dalla nostra. Eravamo usciti da teatro un pelo contrariati per un tracciato così monocorde, per un’esecuzione rarefatta, letterale. Però nelle ore successive ci siamo chiesti: cosa ci aspettavamo? Perché ci ha indisposto questa scrittura di scena, frutto di improvvisazione della compagnia, marcatamente antirappresentativa, dove le figure sono poco più che voci, dove i costumi non sono che indizi di storie solo accennate? Ci si ferma a questo raffrontarsi violento, ferocissimo. Ci si accorge via via di quanta nettezza sia depositata in gesti così rarefatti. Sarà che questa “mente teatrale” è davvero diversa dalla nostra, e a differenza di noi non ha bisogno di riportare la rappresentazione della ferocia umana nei contorni della catarsi? 

Lorenzo Donati

Food Court

Immaginari dopo il decoro

Durante La T3E giorni del Casale, festival di musica e teatro ospitato negli spazi della ProLoco di Monteacuto Ragazza, nell’appennino emiliano, il vento e le stelle accolgono quel rituale che continua a interrogarci e a raccontarci storie in uno stretto intreccio con il presente che quotidianamente abitiamo. Due spettacoli musicali seguono due diverse prospettive per riflettere sulla costruzione della società in cui sono immerse le nostre esistenze.

Concerto fetido su quattro zampe, di e con Alice e Davide Sinigaglia, riflette sulla perdita della propria animalità, sulle orme delle sonorità dei DSA Commando (Destroy the Enemy) e delle parole di Jacques Derrida (L’animale che dunque sono). Dalla provincia ligure, i due fratelli raccontano l’evoluzione umana in un’esistenza in corsa, dedita al lavoro e alla pulizia, eppure senza tempo da perdere. Una danza trasforma il dilatarsi del tempo e le identità dei due esseri umani: su quattro zampe, due cani attraversano lo spazio della scena, lo annusano e lo osservano, si addormentano. Per qualche minuto il tempo scorre in modo diverso: così lontano dal nostro quotidiano, sembrerebbe non accadere nulla mentre il vento respira tra gli alberi. Parole e musica portano alla luce i paradossi del modo in cui viviamo e un randagismo rinchiuso nella compostezza e nel decoro, sullo sfondo di una provincia dedita al turismo estivo. Giocando su sonorità che si muovono dal rap al reggae, emerge la ricerca di tutti quei palliativi per sentirsi liberi senza una reale messa in discussione della società, a partire da una riflessione sulla nostra animalità, accompagnata dalla tentazione di dimenticare la porta aperta e lasciarla scappare.

Concerto fetido su quattro zampe ph Cosimo Trimboli

Witch Is, scritto da Francesca Mignemi e diretto da Virginia Landi, ci porta a un passato che grida ancora forte e chiaro al nostro presente. Dalla bolla papale promulgata da Innocenzo VIII nel 1484, la caccia alle streghe cambia forme e linguaggi, in una visita per un’interruzione di gravidanza fino al proprio sguardo interiorizzato di fronte allo specchio. Nella ritualità di una conta che casualmente stabilisce i ruoli di oppresse e oppressori, Eleonora Paris, Cristiana Tamparulo e Giorgia Iolanda Barsotti si alternano nell’incarnare inquisitori, contadine, prostitute, adultere, donne sole, donne libere, donne sbagliate, inadeguate. Nell’avvicendarsi di distorsioni di stampo rock e sonorità elettroniche, la dimensione musicale costruisce l’intera narrazione e l’incedere di una danza che diventa rituale accompagnata da rime e filastrocche. La voce stessa diventa musica, nella coralità della recitazione di formule magiche che portano alla luce le limitazioni di un modello femminile dentro confini precisamente delineati, per riuscire a strapparli e superarli. Dalla possibilità di nominare e di costruire immaginari, la parola limitante, umiliante, sospetta, soffocante, si rivela strumento per distruggere queste stesse reti, mostrandosi capace tanto di opprimere quanto di liberare.

Petra Spadoni Cosentino

L'autore

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