Sono una schiera che avanza le ventuno donne ucraine, bielorusse e polacche di ogni età (anche una bambina), che cantano e gridano sulla pace, sulla violenza, sullo stupro, sull’amore. È difficile sfuggire alla potenza del coro di Marta Górnicka, ogni parola che ascolti in Madri. Canto per il tempo di guerra, andato in scena al Teatro Studio Melato il 18 e 19 maggio 2024, ti schiaffeggia e non ti abbandona. La regista resta in piedi, salda, sugli scalini di fronte al palco. È una direttrice d’orchestra. Ma non sono necessari strumenti musicali. L’arma più forte è la voce di ogni singola donna, che s’incastra a quelle delle altre in un unico grande coro che raggiunge ogni angolo del teatro. Marta mantiene il contatto visivo con le interpreti, non le lascia mai. I suoi movimenti fendono l’aria, come se stesse combattendo. E loro non smettono mai di guardare il pubblico, lo tengono annodato alle loro parole.
La shchedrivka è il canto degli uccelli che si risvegliano, delle stagioni che rinascono. È la voce della terra ucraina, è quello che la guerra non si è presa. È il canto delle madri che sono venute a salvare le figlie, la loro dolcezza che si alterna a passi di marcia da combattenti, a ritmo di colpi di tamburo. I corpi delle interpreti, vestite in abiti comuni (perché quella è la loro vita), sembrano un unico grande organismo che si muove sul palco diviso in quadrati regolari, come una zattera, formando grappoli, cerchi, rette. L’unico modo per salvarsi è restare unite e muoversi sapendo sempre dove è l’altra, per non farla affondare. Ogni parola accompagna un passo, un movimento, che vengono ripetuti più e più volte affinché si conficchino nella coscienza di ciascuno. Non vedere – non sentire – non udire. Lo stupro è un’arma di guerra e viene commesso in pubblico per aumentare le vittime, le persone che soffrono. Tu che leggi non puoi fare finta di niente, puoi cambiare le cose. La somma delle singole riflessioni cambia la realtà.
L’Europa non può fare finta di niente perché ha avuto un trauma di guerra. L’Est è Europa. È uno scandalo che l’Est sia così lontano. Non sono solo le persone che soffrono è la nostra terra che soffre e rivive ciò che è accaduto in passato. Non possiamo non riconoscere che la guerra sia ancora qui, a casa nostra. Le donne esplodono in una risata di scherno e di dolore, ma non si arrendono. Il loro canto non finirà mai. Si sospende solo quando lascia spazio ai monologhi, unica sezione parlata di tutto lo spettacolo. C’è chi a Kherson insegnava musica e ama le canzoni liriche perché sono quelle in cui si rivela l’anima umana. Bogdana è una maestra d’asilo. “Io posso” è la sua frase preferita. Ora vive a Varsavia. C’è chi ama il pan zenzero e a Primorsk dirigeva un coro della terza età. Kama è arrabbiata, stufa, non ne può più della guerra. Una madre scrive sulla schiena della bambina il nome, il cognome, il numero di telefono. Vediamo i suoi gesti ripresi da una telecamera e proiettati sul grande monitor in fondo al palco. Non sai se li rivedi i tuoi figli quando sei in guerra. Quello che conta della guerra è per quanto tempo proverete indifferenza.
Ci invitano ad acquisire consapevolezza, a non passare da un meme carino a un atroce video di guerra senza battere un ciglio. Tu provaci a cambiare le cose. Le donne si chiudono in un semicerchio, formano uno scudo attorno alla bambina. Fanno quello che dovremmo fare tutti. Proteggere, e dire Never Again, “mai più”.
Madri è un grido di rabbia e di dolore, è un documento collettivo che riporta le ferite delle donne e dell’Ucraina. Si ha quasi l’impressione di non essere di fronte a uno spettacolo, piuttosto a una forma di protesta, a un tentativo di coinvolgere il pubblico a fare qualcosa, a reagire a ciò che non si può accettare come possibile. I loro movimenti sono semplici, spesso ripetitivi, come le parole, ma trasmettono sul palco la forza di chi riporta un vissuto. Non sono attrici professioniste e come tali si presentano nella verità dei corpi. Allo spettatore arriva la coesione di una comunità che si è costruita attorno alla creazione dello spettacolo, che è diventato la bandiera della condizione di queste donne emigrate. Loro ci hanno aperto il libro davanti, è come se dicessero che più di questo non possono fare. L’invito è quello, di agire. Il come lo lasciano a noi.