Bassano, dal Veneto all’Europa
Il fascino delle finestre usurate. I raggi del sole infilzati tra i rami. Il belvedere immenso di Viale Martiri. Il Ponte Vecchio. Il riflesso delle case sul fiume Brenta. Le ombre delle nuvole avviluppate sulle montagne. Questi momenti calamitavano il mio sguardo quando sono arrivata a Bassano del Grappa. Ricordo la sensazione di serenità, di calma, e respiravo il silenzio di una città che in realtà è in pieno fermento artistico, da ormai 35 anni, grazie a Operaestate Festival Veneto, struttura che dà spazio a discipline come la danza e il teatro, ma anche alla lirica e al cinema. Il festival di quest’anno ha come tematica principale il viaggio, proprio per ricordare il lungo percorso iniziato dal 1981, per disegnare la sua diramazione e la sua mappa all’interno del territorio veneto, per coinvolgere spazi all’aperto lontani dai tradizionali teatri, per sottolineare la collaborazione con artisti e compagnie internazionali come Carolyn Carlson Company o la Compagñía Sharon Fridman, ma anche per rimarcare la voglia di guardare oltre i propri confini vincendo, lungo il corso della sua storia, ben 11 progetti europei (Bassano ha il record nazionale). Così, tornando a ritroso fino alla prima guerra mondiale e riscoprendo posti impregnati di storie e memoria, è nato il progetto del 2015 La Grande Guerra, da cui Sharon Fridman, coreografo israeliano ora stabile a Madrid, ha creato In memoriam – After the end, andato in scena per la prima volta il 23, 24 e 25 luglio, rispettivamente a Bassano, Cima Grappa e Asiago.
In Memoriam – After the end di Sharon Fridman
Lo spettacolo, di cui ho potuto vedere gli ultimi due appuntamenti, è stato ricamato su luoghi suggestivi, attorniati da panorami mozzafiato e coinvolgendo 100 donne e 300 coristi. Si tratta di una performance intensa, straripante di espressività, di sguardi, di urla lanciate per la disperazione. Siamo davanti a delle donne comuni, bambine, ragazze, adulte, anziane, che entrano in scena camminando. Sono ferme, immobili, guardano un punto ma la loro energia si può carpire. Iniziano a bisbigliare, sembra vogliano dire qualcosa e la dicono realmente aumentando il volume della loro voce, fino a urlare disperatamente: «Sognami, amami, risognami, risorgi». Un’inusuale preghiera angosciante di donne tormentate dai ricordi e dal presente, viene ripetuta di continuo e poi spezzata per tornare al silenzio e dare spazio al coro che entra in scena pian piano creando un semicerchio dietro le protagoniste. Corpi ammassati a terra, corpi a tratti senza vita e che cercano di sopravvivere al terrore quotidiano, corpi che si prendono cura l’uno dell’altro, si sollevano, abbracciano le gambe della loro compagna, gattonano verso il centro per diventare un unico cumulo da cui fuoriescono busti e mani ricurve che tendono verso il cielo.
Si alzano e strillano creando una rete, un rizoma deleuziano, concetto a cui si ispira Fridman per l’omonimo progetto (Rizoma) dal quale è nata la coreografia rivisitata in questa occasione per i No Limita-C-Tions, una rete di insegnati di danza contemporanea che si impegna nella formazione e in progetti culturali. Le donne sono di nuovo a terra con le gambe a penzoloni, il silenzio viene nuovamente spezzato questa volta dalle scarpe che cadono dai loro piedi, il rumore viene scandito da dei tamburi che amplificano la caduta, come se quelle scarpe fossero dei colpi di cannone, delle pietre, dei massi che una bambina alla fine raccoglie e trattiene al petto mentre va fuori dalla scena quasi sorridendo, donandoci, così, un barlume di speranza. Il coro avvolge lo spettacolo, forte della sua voce non ha bisogno di fare altro che cantare le sue preghiere alpine e alla fine, camminando lentamente, esce come se fosse in una processione funebre.
Non ci resta che guardare i luoghi, il meraviglioso Sacrario di Cima Grappa (con circa 23 mila caduti italiani e austriaci) o l’imponente Sacrario Leitan (con 55 mila caduti, anche qui italiani e austro-ungarici di cui 33 mila ignoti) e sforzarci di ricordare non solo la storia ma anche la memoria individuale delle singole protagoniste, le storie diverse di ogni individuo, ricordarci il viso di chi ci stava accanto. Uno spettacolo che, secondo alcuni partecipanti e spettatori, sembra aver emozionato di più in Piazza Libertà a Bassano, forse perché la piazza è un luogo più raccolto, diversamente dai panorami suggestivi dei sacrari che possono sovrastare il discorso della performance. Nella mia esperienza di spettatrice ho avvertito più forza nella replica a Asiago che, non a caso, ci lasciava più vicini alla scena; lì si riuscivano a scorgere i dettagli e la voce del coro ci veniva addosso. La vicinanza ha un ruolo fondamentale dal punto di vista empatico in uno spettacolo che, come questo, ci esorta a guardare, non solo a ricordare.
Così, mentre tornavo a casa, ho pensato che Bassano fosse un contenitore di ricordi, mi veniva in mente la mostra del ceramista e scultore Federico Bonaldi al Museo civico con suoi “mostri” di ceramica, immagini a volte prese in prestito dal passato che diventano metafore dell’uomo contemporaneo, o alle stampe antiche collezionate dalla famiglia Remondini nei loro armadi a Palazzo Sturm. E, sì, ricorderò il fascino delle finestre usurate. I raggi del sole infilzati tra i rami. Il belvedere immenso di Viale Martiri. Il Ponte Vecchio. Il riflesso delle case sul fiume Brenta. Le ombre delle nuvole avviluppate sulle montagne. Ma anche il tempo che mi è sembrato si fermasse appena arrivata al Sacrario di Cima Grappa, al contatto con la natura al Sacrario Leitan, alla voce potente del coro, alle urla di un’anziana signora dai capelli bianchi e vestita di rosso, allo sguardo apparentemente arrabbiato di una bambina, alla magia di una farfalla che invece di spaventarsi si è posizionata accanto a me.
Due voci dalla scena
Ho avuto la possibilità di parlare con alcuni dei protagonisti all’inizio e alla fine degli spettacoli. Di seguito le due piccole interviste a Ignazio Furlan, elemento del Coro Vecchio Ponte di Bassano, e a Giovanna Garzotto.
Come vi siete approcciati allo spettacolo e com’è stato lavorare con Sharon Fridman?
Ignazio Furlan: «Mi piace molto tale ricerca espressiva. È un percorso che mette alla prova le nostre capacità e che ci ha fatto capire che l’arte può essere fatta in maniera diversa. Inoltre ci ha fatto conoscere persone interessanti dal punto di vista culturale. Per lo spettacolo abbiamo provato quindici giorni, due o tre sere alla settimana. Sharon dà alcune indicazioni ma ci lascia anche liberi, vuole che rimaniamo noi stessi senza cadere nell’innaturalità».
Giovanna Garzotto: «Conoscevo già il lavoro di Sharon Fridman, in particolare avevo già visto come sviluppava alcune parti del progetto Rizoma, ma nel momento in cui ho scelto di partecipare ho iniziato un processo nuovo. Lavorare con danzatrici di età così diverse, da bambine di nove anni a donne mature, madri, nonne, è chiaramente qualcosa di molto forte. Ci sono danzatrici che hanno più esperienza e altre che hanno una conoscenza sulla danza più recente, ma si è creato comunque un corpo unico che è cresciuto un po’ alla volta».
Avete partecipato anche alla produzione Vàstagos, creata per la Biennale Danza di quest’anno?
I.F.: «Sì. A Venezia è stato stupendo col piccolo coro (otto elementi, ndr) e le bambine. Stiamo vivendo una crescita continua, per ora siamo ancora “giovani” e questi sono solo scalini che però ci stanno dando una soddisfazione enorme. Inoltre, siamo in un contesto che non conosciamo bene ma allo stesso tempo percepiamo che può dare molto».
G.G.: «Sì, ho partecipato anche allo spettacolo portato alla Biennale ma in veste di assistente artistica e coreografica. Vàstagos era un lavoro con diciassette ragazzine tra i nove e i tredici anni ed è stata una sfida grandissima. Si è trattato di creare un percorso estremamente fisico ma anche molto astratto, con persone giovani e pochissimo tempo a disposizione».
Non vi spaventava esibirvi in luoghi suggestivi e forti come quelli dei Sacrari?
I.F.: «Effettivamente ho colto una certa difficoltà di alcune persone, unita al fatto che questo spettacolo punta sull’emozione e siamo principalmente noi a doverla fare scaturire. Nonostante le difficoltà la prima sera è andata benissimo, io mi sono lasciato trasportare da questa emozione. È stato stupendo!».
G.G.: «Questi posti non mi spaventavano. Avevo molta fiducia nel lavoro di Fridman, artista che non era certamente alla ricerca dell’effetto spettacolare eclatante. In generale, credo che i luoghi abbiano una memoria molto forte, legata a quello che lasciamo, quello che resta».
di Alessandra Corsini
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.