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(foto di Giulia Lenzi)
(foto di Giulia Lenzi)

Chi ha incastrato Alexandre Dumas? L’amore non corrisposto de “La signora delle camelie”

di Giuseppe Di Lorenzo

«[…] facciamo anche il caso che esista una parità in fatto di bellezza, non per questo vi sarà una parità di desideri, poiché non tutte le bellezze innamorano: ve ne sono di quelle che rallegrano la vista ma non avvincono il sentimento; che se tutte quante le bellezze facessero innamorare e avvincessero, sarebbe una confusione e un continuo fuorviarsi dei sentimenti, non sapendo dove posare; perché, essendo infiniti gli oggetti della bellezza, infiniti verrebbero essere gli oggetti dei desideri.»

Miguel De Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, vol.1, capitolo quattordicesimo

Incorniciato nel palco del Cinema Teatro Excelsior di Reggello, per la regia di Giovanni Ortoleva, liberamente tratto da il romanzo omonimo di Alexandre Dumas figlio, La signora delle camelie è un’acuta riflessione sui cliché nella narrazione, sul ruolo dell’autore e le sue responsabilità morali. Per vari aspetti (anche formali) questo spettacolo è il punto d’incontro ideale tra tutte le tensioni che in questi anni hanno innervato il teatro di Ortoleva.

Un fondale spoglio, quinte a vista, tre sedie impilate in un angolo. Al centro un palchetto da teatro démodé, bianco, con due colonnine corinzie ornate da capitelli dorati decorati con foglie d’acanto. L’interno del palchetto, per quanto riusciamo a scorgerne, è di un rosso sgargiante che profuma di classico. La struttura è sorretta da un piano su ruote che può essere spostato e girato su stesso in totale libertà, insieme alle luci, questi diventano gli unici strumenti utili a articolare i cambi di scena. Il teatro nel teatro non è una novità per il regista fiorentino, lo aveva già sperimentato con La tragica storia del dottor Faust (2021), una cornice più modesta da teatro delle marionette, e in tal senso quest’ultimo lavoro è una nuova riflessione sulla storia del teatro, sui suoi prodromi e sugli scheletri nell’armadio.

La storia è una sintesi efficace del romanzo, e Ortoleva la riscrive con una brillantezza inedita. Siamo negli anni ‘40 dell’Ottocento, Armando Duval (Alberto Marcello) e Gastone Nanny (Vito Vicino) si trovano all’Opéra-Comique di Parigi, poiché, da bravi figli di una borghesia rampante ma rispettabile, frequentano spesso i teatri. Peccato che l’attenzione di Armando non sia stata catturata dall’operetta appena andata in scena, quanto dalla presenza di Marguerite Gautier (Anna Manella) che siede nel suo solito palchetto, vestita di bianco e con lo sguardo stanco ma ammaliante. Da tempo Armando segue come può Marguerite in giro per la città, rapito e frastornato dalla sua bellezza. Gastone invece la conosce già Marguerite, e gli racconta quello che sa di lei, cioè che è una prostituta e che da tempo è piuttosto malata. Da qualche mese vive da mantenuta per conto di un Duca molto anziano, che rivede in lei la figlia perduta. Ci vorrà un po’ di tempo prima che ricapiti l’occasione per Armando di incontrare Marguerite. Stavolta ci troviamo al Theatre des Varietès, dove Armando riesce a convincere Prudenza Duvernoy (Nika Perrone), ex-mantenuta ora al servizio del Duca per sorvegliare Marguerite, a creare le condizioni a lui favorevoli per incontrare la sua amata. L’incontro avviene e tra i due nasce qualcosa.

(foto di Giulia Lenzi)

Armando fin da subito vive questa relazione in modo ossessivo e malato, brucia costantemente di gelosia, e promette una dolcezza e una fiducia che in realtà non concederà mai. Non vuole capire Armando, si rifiuta di concedere a Marguerite qualsiasi spazio di manovra, sa che non ha i soldi per mantenerla eppure s’infiamma al pensiero che lei possa raccoglierne secondo il suo mestiere. Lui, che conta esclusivamente dei soldi che il padre gli elargisce, è incapace di empatizzare con l’urgenza di Marguerite. Ci accompagna nel districare questa storia di lettere, equivoci e tradimenti, un narratore (Gabriele Benedetti), personaggio chiave per giungere alla fine dello spettacolo con una prospettiva feroce e inopinabile sulle scelte di Armando Duval, e anche sul significato stesso della pièce.

La prossemica, come sempre nei lavori di Ortoleva, disvela le intenzioni e i caratteri dei personaggi. Gastone è sicuro di sé, spavaldo, ci guarda frontalmente, similmente Prudenza è consapevole del suo ruolo e lo gioca con sfacciataggine, Marguerite sembra sempre bloccata, legata a qualcosa dal quale non può sfuggire, Armando invece ci appare spesso di spalle, è scosso da passioni violente, immerso nel suo amore unidirezionale neanche ci prende in considerazione, se non per lamentarsi e sfogare i suoi sentimenti peggiori. Armando preferisce cedere al pregiudizio sociale invece che a qualsiasi delle richieste di Marguerite, si fa convincere da ogni diceria mentre Marguerite deve pregarlo di credergli. Armando è un viscido, al contrario di Gastone, che è certamente un poco di buono, ma non si maschera per quello che non è, e le sue azioni al contrario di quelle del giovane amante ci risultano sempre spontanee e leggibili. Marguerite dal canto suo è la vera protagonista dello spettacolo, con gli occhi lividi dalla tisi e un abito chiaro e puro, consapevole di essere l’oggetto del desiderio di tutti e che questa è l’unica leva su cui può costruire un futuro in questa società. Eppure non perde fiducia negli affetti, nell’amore, per quanto sia consapevole della sua posizione cerca sempre di scorgere una speranza alla quale fare affidamento nei momenti di solitudine. Il sentimento che la sconvolge è rivoluzionario come solo l’amore giovanile può essere, il suo unico errore, in fin dei conti, è stato credere alle promesse viziate di Armando.

Il ritmo della pièce è serrato. In due ore Ortoleva condensa tutti gli eventi e aggiunge pure qualcosa, ogni spazio viene raccontato con l’uso del palchetto, a volte girato completamente, delle altre frontale ma con le tende chiuse, a volte di lato. Così come ne I rifiuti, la città e la morte (2020) le luci sono pulsazioni che ritmano lo spazio in levare sul recitato. Anche nel gestire le scene corali il regista è coerente con i suoi lavori precedenti, i personaggi non scompaiono nelle quinte ma agiscono in secondo piano, in un modo che chiaramente deriva dalla frontalità prossemica di Antonio Latella, ma che in Ortoleva viene sempre impreziosito da piccole ma significative azioni, come per esempio nella scena in cui Armando riesce a incontrare per la prima volta Marguerite in camera sua. Fuori dal palco vediamo Gastone e Prudenza in penombra scambiarsi sensuali effusioni, mentre “in scena” i due protagonisti giocano in un delizioso tira e molla, un’immagine che nel suo complesso sembra voler risaltare il contrasto tra un amore casto e uno lussurioso, ma non è così: quello tra Nanny e Duvernoy è un gioco, quello tra Duval e Gautier una tragedia.

(foto di Giulia Lenzi)

Nel romanzo Marguerite muore ma viene salvata agli occhi del lettore poiché si pente della propria condotta, redenta dall’amore del suo amato (che comunque l’ha abbandonata). Nello spettacolo di Ortoleva prima di morire di tisi, Marguerite è protagonista di un monologo sensazionale, in cui rinnega il proprio destino di personaggio e rivendica quello di essere umano, di donna, di ragazza, con i suoi desideri, le sue manie, i suoi crucci, ma anche la sua libertà di essere se stessa e non quello che la penna arguta di un amante geloso e irriconoscente ha serbato per lei. Anna Manella ha saputo caratterizzare una Marguerite memorabile, non dissimile nel dualismo tra l’intimità dell’inizio e l’intensità del finale a quella classica, ma con una nuova forza che ha irradiato il teatro di Reggello di feroce entusiasmo. In coda vi è un colpo di scena, che amplia l’orizzonte della riflessione di Ortoleva dal teatro alla letteratura fino all’autorialità stessa, niente che non fosse intuibile fin dai primi momenti dello spettacolo, ma non è per stupire che avviene questo ribaltamento, bensì per invitare a cambiare prospettiva sul senso di quanto visto finora. Il narratore, un bravissimo Gabriele Benedetti, diventa prima il padre di Duval per poi rivelarsi come Alexandre Dumas padre. Armando dunque è Alexandre Dumas figlio, lo denuncia anche Marguerite nel suo monologo finale: «Alexandre, amore mio, amante che uccide, amore assassino, anche da morta mi userai, mi metterai nel tuo libro, avrai tanto successo e io morirò in continuazione, non bastava una volta sola…» ne deduciamo che Marguerite si palesa nel finale come Marie Duplessis, la donna che Alexandre ha veramente amato, la cui tragica storia ricalca quella del personaggio letterario del suo romanzo di maggior successo e che ne ha ispirati altri cento dopo di lei. Gli avatar si dileguano e restano gli archetipi in carne e bile, l’arte della narrazione assume una veste funeraria. Ce lo spiega bene Dumas padre: «Trasformare una storia in un’opera è come imbalsamare un animale. Una volta che il processo è finito, sembra impossibile che quella creatura sia stata una cosa vera, viva. E al contempo, sembra così reale. Guardare i suoi occhi di vetro è commovente».

Finito lo spettacolo inciampo su immagini collaterali: «Io non sono cattiva, è che mi disegnano così» dice con voce suadente Jessica Rabbit in Chi ha incastrato Roger Rabbit, costantemente incompresa dagli altri personaggi, animati e non, che la vedono solo come una sequenza irresistibile di curve mozzafiato. Alla fine del film sarà lei a districare davvero il caso, ma ce la ricordiamo solo per quella battuta. Siamo anche noi moralmente complici di questa omissione? Nel Don Chisciotte c’è una storia che vede protagonista tale Marcela, una ragazza giovane e bellissima che ha deciso di vivere in solitudine per saggiare a pieno la libertà, questo sebbene la sua avvenenza abbia da sempre intrigato tutti gli uomini che abbia incontrato. Un giorno un vecchio pastore di nome Grisóstomo s’innamora perdutamente di Marcela, la cerca continuamente, prova a ammaliarla in ogni modo, ma di fronte ai suoi continui rifiuti si ammala e muore di crepacuore. A questo punto il villaggio chiede vendetta per Grisóstomo, ma Marcela si difende con un bellissimo monologo, in cui cerca di far capire a quest’uomini la differenza tra bellezza e desiderio. Non sempre il desiderio scaturito dalla bellezza può essere corrisposto, non si è belli per compiacere gli altri. Adesso però non so più se è Don Chisciotte che l’ha salvata da quell’orda inferocita, o Cervantes che l’ha risparmiata.

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